Il Colombre di Buzzati, o della la vittoria della nevrosi e degli educatori abusanti

Che cos’è la nevrosi? Intanto è la malattia di cui, perlomeno qui in occidente, soffre sostanzialmente chiunque respiri. Tutti, senza esclusione (ovviamente vale anche per chi scrive). La malattia è stata levata dal DSM più di quaranta anni fa, immagino per eccesso di evidenza oppure per eccesso di conflittualità inconscia (nevrotica). Ma tant’è. La nevrosi è la cosa più palese ovunque si guardi, da una strada trafficata, ai canali social, dagli studenti di un liceo divorati dall’ansia, a quelli che smangiano i tappi delle bic alla ricerca di un capezzolo ormai lontano nel tempo, da quelli che mangiano 4 volte il proprio fabbisogno alimentare, a quelli che spendono consistenti porzioni del proprio stipendio per inalare catrame e alcaloidi nei propri bronchioli, per finire con quelli approssimativi nelle consegne, per giungere ai carrieristi, che non consentono alcuna sbavatura nella conquista di un progetto. Gli esempi potrebbero moltiplicarsi QUASI all’infinito (un caso da studiare a parte sarebbero secondo chi scrive le persone tormentate dal Disturbo Ossessivo Compulsivo). Ma tant’è.

Riteniamo invece più interessante segnalare, senza avere cercato neanche troppo, ciò che accomuna questa moltitudine di sintomi, ovvero un rapporto sostanzialmente insoddisfacente con la propria esistenza. Pur esaltata nei racconti con gli amici al ritorno delle vacanze, o sublimata nel conseguimento di obiettivi anche prestigiosi, guadagni esorbitanti e traguardi ambiziosi, senza che nessuna cosa riesca a suppurare la ferita che ci portiamo dentro. Solo le anime più sensibili si accorgono della vanità di tali conquiste. Polvere che si dissipa come dopo la conclusione di un Mandala, spazzata via dagli stessi Monaci che avevano costruito il mosaico. O come Cesare Pavese, che nel diario, il giorno della vittoria del premio Strega annotò: “A Roma apoteosi. E dunque?” 

Di questa umanità anoressica di esistenza, ne parla con arguzia e ironia il geniale “Piccolo libro dell’Ombra”, del poeta Robert Bly, recentemente scomparso. Oppure compare come condanna sorda e feroce nelle parole di Albert Camus, Il mito di Sisifo: 

“La levata, il tram, le quattro ore di ufficio o di officina, la colazione, il tram le quattro ore di lavoro, la cena, il sonno e lo svolgersi del lunedì, martedì mercoledì giovedì venerdì e sabato sullo stesso ritmo… questo cammino viene seguito senza difficoltà la maggior parte del tempo. Soltanto, un giorno, sorge il «perché» e tutto comincia in una stanchezza colorata di stupore. «Comincia», questo è importante. La stanchezza sta al termine degli atti di una vita automatica, ma inaugura al tempo stesso il movimento della coscienza, lo desta e provoca il seguito, che consiste nel ritorno incosciente alla catena o nel risveglio definitivo.”

Una infinita coazione a ripetere cui la principale prerogativa è quella di non portare da nessuna parte. Uomini e donne che pattinano inconsapevoli sulla vacuità dei propri gesti, dei propri traguardi. Parole che ricordano l’ignoto autore del Qoelet “tutto è vanità

Ecco cos’è la nevrosi: ognuno di noi vive sul filo di un baratro, su uno strato sottilissimo di ghiaccio, al di sopra di un abisso insondabile. Vive nel presentimento che tutto possa essere vacuo e inutile.

Un abisso che percepisce, di cui intuisce flebilmente una sorta di appartenenza, ma che non riconosce, e non lo conosce perché una paura atavica lo ha allontanato quasi irrimediabilmente. Perché dentro di lui c’è ancora  il puer, immerso nell’inconscio amniotico, che ritiene che nel momento in cui perderà una delle stampelle che è riuscito a procurarsi, precipiterà giù, come fanno i neonati con il “Riflesso di Moro”.

Ma tutto ha un’origine. Nella Bibbia c’è un “peccato originale”, che viene letto per lo più come l’origine di ogni peccato, mentre forse sarebbe più corretto considerarlo come l’origine della autocoscienza (“scoprirono di essere nudi”, e di ogni altra cosa (la morte, la vita, l’amore e la consapevolezza, la gioia e il dolore).

Quale sarebbe invece il “peccato originale” della nevrosi? Ce ne dà una esemplificazione geniale uno dei racconti più belli (ma anche dei più brutti) dello scrittore vicentino/milanese Dino Buzzati: Il Colombre.

Tutti abusanti, tutti abusati

Prima di entrare nel merito però devo fare una premessa, una mia convinzione personale, non so quanto condivisa dai miei amici psicanalisti (rigorosamente junghiani): ogni sofferenza è generata da un abuso, e ogni abuso genera sofferenza, sia pure in forme differenti. E abuso è, sempre secondo me, ogni scambio che avviene in una asimmetria di poteri, tra chi ne ha troppo e chi deve soggiacere senza averne alcuno. Perfino negli stereotipi la psicanalisi si occupa prevalentemente dei traumi dell’infanzia, i kindertraumen direbbe CG Jung. E se non fosse che trauma sia ogni circostanza in cui qualcuno, privato del potere di decidere debba subire la volontà di un altro? Si badi bene che, inteso in questa maniera, sarebbe traumatica e abusante anche la decisione più ragionevole presa da un genitore, come impedire l’attraversamento di una strada pericolosa, o quella di impedire allo stesso figlio esagitato di giocare a pallone vicino a un torrente in piena; il realismo (categoria un po’ troppo inflazionata) potrebbe giustificare, ma il processo psichico attivato non è detto che coincida con il pericolo evitato. Altresì sono, a mio personalissimo avviso, abusanti la maggioranza degli obblighi e prescrizioni che avvengono all’interno di una scuola. E’ logico che non si possano mandare 10 persone contemporaneamente in bagno, altresì dal punto di vista del discente dover accettare che il rapporto tra me e la mia vescica sia regolamentato da un estraneo, potrebbe essere inaccettabile. Anche se non dovesse apparire tale, buttando più facilmente il trauma – che è sempre “grande” perché riguarda la cosa più intima che ognuno di noi si porta addosso, ovvero il libero arbitrio – giù nei recessi dell’inconscio. Laddove, non più veduto, potrebbe caricarsi di ombre e diventare più potente di quanto si immagini.

L’orologio di Buzzati

Infine, prima di entrare nel racconto di Buzzati, mi tocca fare un’ulteriore premessa – l’ultima. E riguarda il tempo. Il tempo della nevrosi (e dei nevrotici) è apparentemente lineare, piatto, sostanzialmente ripetitivo. Il suo immaginario si è radicato nella rappresentazione di Isaac Newton, del cosiddetto “tempo lineare”. E la linearità risulta da un certo punto di vista confortante, perché prevedibile, ancorché ineluttabile e irreversibile. Chi vive nella linearità costruisce per sé una esistenza protetta. I giorni scorrono uguali. Perché ciò che è diverso fa paura.

E’ la paura, il vero collante della nostra società, diventa il tutto per ogni rappresentazione del vivere. Dalla pubblicità: “…e passa la paura!”, ho ascoltato recentemente la conclusione di uno spot radiofonico. L’oggetto era un software gestionale per le buste paga; “Così sai cosa aspettarti.”, gli fa eco un altro. Quando qualcuno entra in ospedale, magari per una operazione, noi gli auspichiamo “Andrà tutto liscio!” che a mio modo di vedere aggiunge anche l’assenza di attriti. E’ così che noi disegniamo il tempo, come un tubo lubrificato entro cui trascorrere l’esistenza, toccando/lasciandosi toccare da meno cose possibili. Abbiamo creato un sistema complesso, ed estremamente variegato di entertainement il cui principio è “passare il tempo” senza attraversarlo e senza esserne attraversati, senza viverlo, senza assegnargli un valore. Riducendolo semmai a un disvalore, perché il tempo è un problema, è noioso – una conseguenza inevitabile. Ai miei studenti dico che è statisticamente probabile “sbagliare” molte scelte nella vita, a partire dalla scuola (sulla quale grava il forcipe della obbligatorietà), università, relazioni, e lavoro. Talmente frequente, d’avere creato stereotipi, luoghi comuni e persino barzellette. Si vive la settimana per il venerdì, si odia il lunedì. Si agognano le vacanze. Si vorrebbe divorziare, ma non si trova la forza per farlo. Si trova un lavoro diverso da quello desiderato. Insomma, si finisce per detestare ciò che, in qualche misura almeno, ci compete fare. Si finisce per vivere dove non si vorrebbe. Per tenere i piedi su una terra che non è mai stata la propria. Principalmente questo diventa causa di depressioni – persone che perdono l’oriente, e declinano verso l’occaso, dove il sole muore. E muoiono, persino quando sono in vita. E se diventano anziani, affogano nella depressione – la medicina da alcuni decenni si è specializzata enormemente, raggiungendo standard di cura inimmaginabili solo poco tempo fa, aggiungendo anni e anni di aspettativa di vita, puntando inconsciamente all’immortalità – rendendo i medici i sacerdoti di un nuovo culto, signori della vita e della morte, con tanto di cattedrali, paramenti e liturgie, una fede che si fonda (un po’ come tutti) sulla paura della morte.

Certo non è infinita, sicuramente non per chi respira, e questo noi nevrotici lo temiamo come la morte, perché sarà proprio la morte, il da-sein Heideggeriano a infrangere tutte le difese fino a quel momento adottate. Che Newton avesse torto è stato largamente documentato dalle acquisizioni della relatività, e ancor più dalla quantistica. Tuttavia l’immaginario per noi continua a essere quello scientificamente superato, perché ciò che è lineare sembra più facile da gestire. Ma già i Greci celebravano almeno un’altra forma di temporalità, Kairos, accanto a Kronos (un padre abusante che divora i figli). L’occasione improvvisa, l’insight, il balzo in avanti – ma anche in alto e forse persino verso il fondo – a fianco dello scorrere lento e ineluttabile del gregge di nuvole sul tappeto azzurro del cielo, o sui fondali dove si nascondono i relitti e le cose. Dove sono  dimenticate. Dove ci sono i tesori dimenticati. Anche se questo non traduce esattamente ciò che intendo, è già qualcosa. Ciò che io penso è che occorra, accanto alla dimensione orizzontale del tempo, un’altra verticale, quella dove magari il ghiaccio si spacca e ci si immerge, o ci si eleva. Ed è la dimensione del significato, del perché, del valore reale che si attribuisce alla realtà intera, alla propria vita. Il tempo verticale è quello dove si ama, ama davvero, profondamente senza calcolo, perché questo è l’unico accesso al significato, al valore – reale o attribuito, non importa – di tutte le cose, il punto dove ci si immerge nell’Abisso della propria esistenza. Un momento estremamente doloroso, come la nascita, o come la morte. Il momento in cui si scende a considerare l’inconscio, che ci permea, ci fa gioire, soffrire, desiderare, amare e odiare. Vivere, diversamente dalla farsa imbastita della nevrosi.

Sinossi

Tracciamo intanto una breve sinossi del racconto, pubblicato da Buzzati il 22 agosto 1961, venendo inserito successivamente nella raccolta Il Colombre e altri cinquanta racconti.

Curiosamente nella successiva raccolta, più nota, “La boutique del Mistero”, la centralità del Colombre non verrà ribadita quantomeno nel titolo. Del protagonista, Stefano Roi, qualcosa s’è detto. E’ un dodicenne dapprima allegro e solare, che accompagna il padre, capitano e proprietario di una bella nave da diporto, a fare una traversata. Ma quasi subito si accorge che a prua uno strano oggetto lo sta seguendo. Quando il padre lo raggiunge, imbraccia un cannocchiale e cambia espressione, dalla gioia al terrore. Quel “puntino” che segue la nave 

è un Colombre, È il pesce che i marinai sopra tutti temono, in ogni mare del mondo. È uno squalo tremendo e misterioso, più astuto dell’uomo. Per motivi che forse nessuno saprà mai, sceglie la sua vittima, e quando l’ha scelta la insegue per anni e anni, per una intera vita, finché è riuscito a divorarla. 

E il Colombre cerca proprio Stefano. Così il piano del viaggio viene immediatamente stravolto, Stefano riportato frettolosamente al porto da cui era salpato. Da quel momento il ragazzo viene allontanato dal mare (ndr: Buzzati usa un’altra espressione, “distolto dal desiderio”), e mandato a studiare – e vivere – in una città dell’interno. Ma pure lì, al sicuro, quello squalo diventa una “segreta ossessione” per cui, quando il padre muore, torna alla città in cui era nato e comincia  a navigare. Dapprima come marinaio semplice, poi con l’eredità paterna si prende un piccolo piroscafo e infine un mercantile. Naviga sempre, e sempre dietro alla sua prua c’è il Colombre. Ma Stefano è paralizzato tra l’attrazione e la paura (su questa ambivalenza Buzzati gioca di continuo), fino a quando invecchia e decide, in punto di morte, di andare finalmente a sfidare la bestia. Ma quando questa emerge a fianco del barchino, scopre che intanto il Colombre parla, e non ha mai avuto intenzione di divorarlo, ma soltanto di elargirgli un dono del re degli oceani, la “famosa” Perla del Mare, 

che dà, a chi la possiede, fortuna, potenza, amore, e pace dell’animo.” 

Ormai però è troppo tardi. Così i due si congedano, e pochi giorni dopo alcuni pescatori avvistano un barchino sul quale, ancora ritto, c’è uno scheletro bianchissimo, tra le cui falangi stringe ancora 

un piccolo sasso rotondo”.

Il padre abusante e la trasformazione abortita

Ma la nevrosi ha ancora un punto, una scaturigine, una ferita antica che in pochi percepiscono di dover curare. Ogni atto subito da chi non ha potere è abuso, ma ve ne ne deve essere uno che abbia avuto il potere di perforare il carapace della normalità.  

Tutto questo lo si ritrova ne Il Colombre. Ed è curioso che proprio questo racconto sia, forse, quello con il linguaggio più scarno, quasi cacofonico. L’unico nome che viene fatto in tutto il racconto è quello del protagonista Stefano Roi. Per il resto viene conferita una (breve) fisionomia al padre – abusante, ma tutti gli altri, pochissimi, personaggi, non sono che sfumature che immediatamente si perdono. Persino la madre è un carattere del tutto evanescente, completamente avulsa dalle scelte del marito prima e dalle angosce del figlio dopo. Per non parlare dei compagni di navigazione di Stefano, cui al massimo si può conferire il rango di ombre. C’è un altro personaggio pervasivo, insistente, inesorabile, insistente, irreversibile proprio

“come gli strumenti del fato” 

Ed è proprio il Colombre, il convitato abissale.

Una curiosità: le esistenze dei protagonisti si consumano in un tempo accelerato – scivolano come sul ghiaccio. Il padre nel momento antecedente all’avvistamento del Colombre, dapprima afferma 

“Nonostante i miei quarant’anni credo di avere ancora una vista buona. Ma non vedo assolutamente niente.” 

Vive in un mondo dove un quarantenne normovedente deve usare un “nonostante” per giustificare una piccola defiance. Ma forse non ha tutti i torti se soltanto una decina di anni dopo muore “per (una) malattia” sulla cui natura non si sofferma. Invece Stefano morirà “vecchio, vecchissimo…” sebbene abbia – Buzzati ci fornisce i numeri da calcolare – tra i sessanta e i settanta anni.

Stefano Roi è un personaggio di una solitudine senza paragoni. Eppure la sua vita, all’inizio del racconto, viene mostrata nel modo più solare possibile. Tutto comincia con una promessa di gioia incontenibile, quale l’infanzia (o la preadolescenza) dovrebbe essere:

“Quando Stefano Roi compì dodici anni, chiese in regalo a suo padre, capitano di mare e padrone di un bel veliero, che lo portasse con sé a bordo: «Quando sarò grande» disse «voglio andar per mare come te. E comanderò delle navi ancora più belle e grandi della tua.» «Che Dio ti benedica, figliolo» rispose il padre. E siccome proprio quel giorno il suo bastimento doveva partire, portò il ragazzo con sé. Era una giornata splendida di sole; e il mare tranquillo. Stefano, che non era mai stato sulla nave, girava felice in coperta, ammirando le complicate manovre delle vele. E chiedeva di questo e di quello ai marinai che, sorridendo, gli davano tutte le spiegazioni.”

Tutto è solare, come solare dovrebbe essere l’infanzia, sino al suo stereotipo. La giornata è appunto splendida, i marinai sono pazienti e sorridenti, aperti al dialogo, c’è un magnifico vento al giardinetto. Meglio di così, si direbbe, non potrebbe andare.

Essendo tuttavia un momento di passaggio deve accadere un contatto con l’ombra. Ma ecco che spunta il latore dell’Ombra, il messaggero dell’Abisso, l’agente delle profondità dell’universo, il Colombre appunto. Non ancora il nemico (non ci sono gli elementi per classificarlo tale, non ci saranno anzi mai, al di là di leggende e superstizioni). Già alla sua comparsa il mostro rivela immediatamente la propria natura ambivalente, la benedetta ambivalenza junghiana, che verrà ribadita ovunque lungo le pagine del racconto:

“E, sebbene egli non ne comprendesse la natura, aveva qualcosa di indefinibile, che lo attraeva intensamente.”

Questa attrazione, è un presentimento, che dovrebbe fare del pescecane un attore necessario della scena, il portatore – della perla non possiamo ancora sapere – del cambiamento necessario. Si sta recando, con la sua offerta, sotto l’altare affinché il rito possa essere celebrato. Sicuramente il pescecane è il latore dell’ombra, senza il cui contatto ogni trasformazione è sempre formale e incompleta. Gravemente incompleta.

A questo punto giunge il capitano – in questo passaggio la veste di ufficiale si confà più di quella di genitore. Individua quel puntino, che è appunto uno “squalo misterioso”, e cioè pericolosissimo, perché non vi può essere che qualcosa di malvagio e minaccioso nel mistero. Si celebra in questa idiosincrasia la paura del non manifesto, dello sconosciuto. Incomprensibile diventa sempre sbagliato.

L’ufficiale non ha informazioni di prima mano, confessa di non averne mai visto uno, ma si basa su una fittissima ed autoalimentata rete di “si dice” che non lascia scampo alla celebrazione. A questo punto prende una decisione, che cambierà per sempre la vita di Stefano (molto meno la propria). Non appena individuato l’animale, dimostra la meschinità – anzi, la raddoppia – di tanti adulti, che preferiscono accusare i figli piuttosto che assumersi le proprie responsabilità:

Oh, non ti avessi ascoltato» esclamò il capitano. «Io adesso temo per te.”

Il verdetto di colpevolezza è stato emanato in rito abbreviato. La primissima responsabilità non può essere ovviamente caricata sulle spalle del padre, e neanche del numinoso pesce (che in fondo fa – dovrebbe fare – ciò che ci si aspetta da lui). Il primo ad avere sbagliato è proprio il piccolo Stefano. Come si è permesso di manifestare il proprio desiderio? Di avere desiderato un Destino? Peggio: come si è permesso di coltivare un desiderio? Ha rovinato tutto, e il peso di questo disastro lo deve portare come un Atlante solitario quel sant’uomo del padre. Da questo momento – io adesso temo per te – infatti il problema non sarà che il figlio venga inseguito da un mostro per il resto dei suoi anni, ma i timori che questa condizione potrà generare nel genitore (meno di quanto si possa pensare tuttavia). 

Ma non si vergogna quel dodicenne brufoloso di causare tante angosce in chi ha fatto così tanto per lui? 

Ma la meschinità più profonda deve ancora arrivare:

“Ascoltami: ora noi torniamo subito a terra, tu sbarcherai e non ti staccherai mai più dalla riva, per nessuna ragione al mondo. Me lo devi promettere. Il mestiere del mare non è per te, figliolo. Devi rassegnarti.”

Persino il capitano ne è consapevole. Con questa mossa a Stefano non viene sottratto un hobby, ma il Destino medesimo. E per essere sicuro che il sopruso venga portato a temine, esige un patto, quell’odioso  “me lo devi promettere.” Ma in base a che, qual è il principio da invocare perché quello sia un “debito”, un “dovere” se non l’estorsione al figlio indifeso, che non in grado di opporre alcun tipo di resistenza, Il “patto” – ma è un atto criminoso – viene richiesto e ottenuto in base alla inermità dell’interlocutore. Qual è la controparte del patto? Dov’è il “do ut des”, la controparte, il vantaggio conseguito dalla parte più debole? Non c’è, semplicemente. E Buzzati dice molto chiaramente, quale sia invece l’unico a guadagnarci dall’invenzione di quel debito, dalla prevaricazione, ovvero il Padre – il cui obiettivo NON E’ al di là dei proclami – la salvaguardia del figlio, ma il non doversene più preoccupare: insomma… preservarsi dall’ansia.

Lo testimoniano i passi successivi. Infatti

“Ciò detto, fece immediatamente invertire la rotta, rientrò in porto e, col pretesto di un improvviso malessere, sbarcò il figliolo. Quindi ripartì senza di lui. ”

(Il tema del Colombre, viene trattato con i crismi della vergogna, dell’onta e infine dell’ombra, per cui chi ne viene “infettato” è solo; non tanto per l’ostinazione del pescecane, ma soprattutto per l’esclusione della comunità umana. E’ una macchia dalla quale è impossibile decontaminarsi perciò tanto vale tenerla occultata. Anche Stefano si comporterà così fino agli ultimi istanti della sua vita), il ragazzo viene sbarcato e la nave – e il suo capitano – si allontana dall’appestato senza troppi fronzoli o ripensamenti.

“Profondamente turbato, il ragazzo restò sulla riva finché l’ultimo picco dell’alberatura sprofondò dietro l’orizzonte. Di là dal molo che chiudeva il porto, il mare restò completamente deserto. Ma, aguzzando gli sguardi, Stefano riuscì a scorgere un puntino nero che affiorava a intermittenza dalle acque: il ‘suo’ colombre, che incrociava lentamente su e giù ostinato ad aspettarlo.”

Non c’è possibilità di elaborazione, oltretutto il ragazzo viene ulteriormente messo in pericolo. E’ sufficiente pensare a questo: un ragazzo inseguito da un pericoloso squalo, si trova in una condizione più pericolosa a bordo di una solida nave, confortato dalle attenzioni del padre – un padre diverso, a questo punto – e di chissà quanti altri marinai, avvertiti (forse) del pericolo e allertati a intervenire qualora il ragazzo si sporgesse da una balaustra, oppure lì, scaricato dalla nave e dal suo sogno, dal padre e dal destino, definitivamente solo, abbandonato, frastornato sulla riva di un mare “completamente deserto”? E’ talmente confuso che, chissà, potrebbe anche tentare un gesto disperato, lanciarsi a nuoto verso quella nave da cui è stato sbalzato, come un accessorio inutile,

Superfluo dire che il padre di Stefano – e chissà quanti altri – inverano la profezia di Betsy Karasik che qualche anno fa sul Washington Post. seguendo una polemica nazionale, scrisse di avere l’impressione che i genitori cercassero di tutelare se stessi dalla (possibile) accusa di non tutelare i figli, che tutelare effettivamente questi.

Il padre di Stefano si comporta esattamente così. Impone – non propone – un patto, le cui parti sono separate da una asimmetria insanabile. Come il Dio degli Israeliti sottopone al suo popolo un contratto, dove però le condizioni sono gravemente impari. 

E quale sia il vero interesse del capitano lo documenta non solo con le parole, ma anche coi fatti. Abbandona immediatamente e letteralmente il figlio al suo destino (quale che sia). Il racconto di Buzzati non li mette più l’uno di fronte all’altro. L’uomo adulto avrebbe potuto fare mille cose diverse, dimostrare una intelligenza educativa che, evidentemente, non ha mai avuto interesse a coltivare: suo figlio ha appena perso quello che ha sempre considerato il suo destino, e lui non muove nulla. Potrebbe, per fare un esempio, rinunciare a quello specifico viaggio, lasciarlo condurre al comandante in seconda, e fermarsi a casa a parlare con quel bambino traumatizzato. Fare lunghe passeggiate lungo il mare – il colombre non ha le ali – fargli comprendere che il legame con l’Oceano non lo perderà mai, anche se dovesse rinunciare a navigare. Infine, cosa non da poco, potrebbe accettare di farsi carico di qualche preoccupazione in più, e lasciare Stefano decidere per se stesso.

Ma questo è un livello di consapevolezza cui pochi genitori riescono a raggiungere. Non lui.

Nel “Piccolo libro dell’Ombra” Robert Bly racconta un episodio, accaduto a un conoscente, che documenta quanto si possa agire diversamente. Europa, seconda guerra mondiale, i nazisti stanno cominciando a cercare ovunque gli ebrei per la deportazione. In un certo villaggio, con una forte componente ebraica, tutti sono ovviamente preoccupati per quello che sta per succedere. Al centro della comunità israelita c’è proprio la famiglia di quello che diventerà l’amico di Bly, ancora bambino. Poiché la sua abitazione era “invasa” di persone che chiedevano un consiglio, o un aiuto anche in momenti di pace, tanto più adesso, quando le SS e le loro camionette si facevano sempre più vicine. Molte persone si aggiravano nella sua casa, nel suo habitat senza nascondere l’angoscia di quel momento. Ma il bambino non poteva capirne le ragioni e, siccome quella mattina nessuno aveva provveduto alla sua colazione, l’ansia si era trasformata nella protesta per non aver ancora ricevuto nulla da mangiare. Così una cameriera, anche lei indaffarata nei preparativi di fuga, non riuscì a fare di meglio che dargli un pezzo di pane. Ma la fame non era il vero motivo di quella rabbia così il bambino lo prese e lo scaraventò in terra, per protesta. Conosco molti genitori, sedicenti educatori, che davanti a un capriccio del genere – perché poteva sembrare un capriccio – si sarebbero sentiti autorizzati ad impartire una lezione di realismo, magari con uno sganascione. Per fortuna capitò proprio in quel momento il nonno, la figura più carismatica della famiglia quando vide il gesto, raccolse il pane, lo baciò e lo restituì al più piccolo. Non reagì come avrebbero fatto la maggior parte degli adulti, non utilizzò le “la straordinarietà delle circostanze”, per mortificare chi aveva fatto – o sembrava – un capriccio in un momento simile. Con un gesto elementare non eliminò la sensazione di pericolo, ma gli comunico che quel pericolo poteva essere affrontato, insieme. Baciato, appunto.

Quello dell’esempio si pone all’esatto opposto del comportamento del Padre di Stefano: la sua è una imposizione, che si regge su un ricatto, un patteggiamento senza controparte, volto esclusivamente a uno scarico di responsabilità. 

Che la sua priorità sia se stesso e non il figlio, Buzzati lo sottolinea poco dopo. Perché dopo che Stefano viene brutalmente allontanato dal paese natio, e mandato a studiare in una città dell’interno, una verifica l’abbiamo quando, per le vacanze estive, a un certo punto il ragazzo torna a casa. Immaginiamo che torni in treno, ma alla stazione non lo va a prendere nessuno. Gli adulti sono affaccendati in cose da adulti, a gestire egocentricamente la porzione della relazione che li riguarda – questo come detto non vale per la madre, che del Colombre non sa nulla. Il padre letteralmente non se ne occupa. Così Buzzati descrive, nel suo modo sotto testuale, una sequenza davvero impressionante:

“Tuttavia, per le vacanze estive, tornò a casa e per prima cosa, appena ebbe un minuto libero, si affrettò a raggiungere l’estremità del molo, per una specie di controllo, benché in fondo lo ritenesse superfluo.”

Qual è la ragione per cui si manda un figlio a studiare “al sicuro” da un pescecane ostinato, se poi, quando questo fa capolino in città lo si lascia solo con risultato: “prima cosa”, “minuto libero”, “si affrettò”, “estremità del molo”, sono tutte espressioni che descrivono la premura, il correre, ovvero esporsi al pericolo più grande che si possa immaginare? Se stefano fosse inciampato e caduto in acqua e fosse stato divorato dal Colombre? Il padre probabilmente avrebbe al funerale rivelato – a quel punto cosa sarebbe servito mentire – del pescecane, avrebbe altresì detto di avere fatto di tutto perché lui potesse stare al sicuro, lontano dalla bestia immonda. L’allontanamento in città, la promessa stessa carpita, il silenzio con la moglie, affinché non si angosciasse, non erano la miglior prova di quanto fosse stato integerrimo e responsabile il suo comportamento?

Ma non è vero.

Tuttavia il diktat paterno non viene mai smesso in discussione. Nemmeno dopo la morte del beneficiario del patto surrettiziamente imposto. Questa è la debolezza psichica che comporta la nevrosi, una grave nevrosi. Stefano rimane prigioniero dell’anatema paterno, non riesce a prenderne le distanze. Tuttavia non riesce mai a distaccarsi neanche dal Colombre. Una oscillazione piena di inquietudine, alla quale manca l’elemento risolutore – in un modo o nell’altro -, ovvero il conflitto. Ondeggia tra il ponte della nave e il mare aperto – anzi, il ponte diventa proprio il luogo dove riesce a mantenere il precario rapporto “non conflittuale” tra gli estremi:

Navigare, navigare, era il suo unico pensiero. Non appena, dopo lunghi tragitti, metteva piede a terra in qualche porto, subito lo pungeva l’impazienza di ripartire. Sapeva che fuori c’era il colombre ad aspettarlo, e che il colombre era sinonimo di rovina. Niente. Un indomabile impulso lo traeva senza requie, da un oceano all’altro.

Finché vive in città diventa per lui “una segreta ossessione”. E’ chiaro che centinaia di chilometri lo separano dal pericolo, ma lo ha interiorizzato, collocato in una dimensione intrapsichica tale per cui la distanza non sarà mai abbastanza. Il “mostro” è penetrato, fa parte della sua persona, diventa la sua Ombra, ma Stefano come tanti non è in grado di valorizzare l’ambivalenza, di dare un valore positivo all’attrazione, e quindi sfugge il contatto, tenendo l’origine delle sue paure rigorosamente alle spalle. 

Il lavoro, le amicizie, gli svaghi, i primi amori: Stefano si era ormai fatta la sua vita, ciononostante il pensiero del colombre lo assillava come un funesto e insieme affascinante miraggio; e, passando i giorni, anziché svanire, sembrava farsi più insistente. Grandi sono le soddisfazioni di una vita laboriosa, agiata e tranquilla, ma ancora più grande è l’attrazione dell’abisso.

Ma cos’è questo “Abisso”. In parte abbiamo provato ad accennarvi come al nostro inconscio. Proveremo ora ad essere più specifici. L’Abisso è il luogo della generazione dei contenuti – qualsiasi contenuto – di significato. Molti miti/religioni evocano  le figure di un Dio che scende negli abissi per completare la propria “missione”. Lo stesso Messia cristiano, ma prima di lui Inanna, Eracle, il Ciclo di Baal, Jona nella Balena, Maometto condotto dall’Arcangelo Gabriele sul dorso del cavallo Buraq, il viaggio di Orfeo alla ricerca (infruttuosa) di Euridice, Gilgamesh che si immerge sul fondo dell’Oceano dietro indicazione del vecchio Utnapishtim, il quale gli indica dove è ubicata l’erba della vita eterna (che  tuttavia gli viene sottratta da un serpente). Amore, morte, immortalità… l’Abisso è il luogo delle cose vere, perché è il luogo delle cose ultime, definitive. Nella vita di un uomo poche cose sono “abissali” (sebbene più di quanto ce ne si accorga. Abissale è la vita medesima, quantomeno la sua origine, la sua conclusione, il dolore, e se anche meno di moda, anche la gioia). Tutto è lì sotto, bloccato, imprigionato dietro mura tetre, coperto da veli deformanti e spaventose. Ma occorre “toccare l’ombra”, accettare il conflitto – nel caso di Stefano con il padre, o con la sua memoria. Altrimenti si vive, si sopravvive per un lasso di tempo, per poi scoprire di non avere vissuto. 

 “«Ahimè!» disse scuotendo tristemente il capo. «Come è tutto sbagliato. Io sono riuscito a dannare la mia esistenza: e ho rovinato la tua.

L’uomo contemporaneo è dissolto nel suo primo pavor nocturnus, nevroticamente incapace di spegnere, o superare quel terrore divorante, della notte, del buio e delle sue creature. Ovviamente non ne è cosciente – sarebbe un grande vantaggio poterlo capire. Rimane imprigionato nelle proprie piccinerie, nei gesti ripetuti senza motivo, nell’andare senza domandarsi dove. E così la maggior parte delle persone vivranno senza conoscere l’amore, senza l’autentica coscienza della propria mortalità, non avrà guardato l’origine delle origine, e la finalità di tutti i fini, spegnendosi alla fine come il mozzicone dell’ultima sigaretta di una caldissima estate.

Ed ecco perché il protagonista del mio prossimo romanzo semiautobiografico si chiamerà Stefano Roi.

La pesca delle responsabilità

Volevo dire la mia sulla pubblicità Esselunga. Se ho esitato è perché da un lato credo se ne sia parlato troppo, alcune nuance siano state lette come radicalizzazioni, attribuendo talvolta un eccesso d’intenzione che, forse, non c’era. Tuttavia le prese di posizione ci sono state, le contrapposizioni – anche molto dure – altrettanto. E allora eccomi:

Intanto la pubblicità è furba. Scritta e girata molto, molto bene. Gli attori quasi perfetti. La bambina di suo già in odore di Oscar. L’Esselunga dove si svolge l’azione non è il tempio di luce che conosciamo, ma un ambiente più dimesso. La gente che si aggira coi carrelli non è lì a vincere la partita con la vita, non ha vinto al Superenalotto, non è nemmeno in condizione di indigenza. E’ gente che lotta, onestamente, per portare avanti la vita come pensa e come riesce. Di certo è così la madre. La bimba è una bimba qualsiasi, possiede un universo interiore – celato agli adulti -, ed è un po’ malinconica. Ma anche qui non troppo. Non è depressa, lacerata interiormente a causa delle divisioni in famiglia. Riesce comunque a giocare, non è “spezzata”. Tuttavia da questo parziale equilibrio, si ricorda di quando i genitori stavano insieme – entrambi vengono descritti, per cenni, come delle belle persone, perciò è facile immaginare che quella fosse stata una bella coppia – e ne ha nostalgia. E così parte l’espediente della pesca.

Se quella che abbiamo descritto fosse una situazione reale – per quel che vale questa parola – non ci sarebbe alcunché da dire. Beh sì, forse è un pochino idealizzata nelle sue proporzioni, ma che un bimbo possa essere nostalgico della unione dei genitori una volta separati, non ci trovo niente di assurdo. Il punto è piuttosto che questo ci viene proposto in una réclame, dove ciò che nella realtà continuerebbe ad avere un elemento contingente, e rappresentare ESCLUSIVAMENTE sé stesso, una volta trasposto in una clip pubblicitaria, ripetuta ossessivamente, gli elementi caratterizzanti la situazione trascendono la singolarità assumendo una dimensione simbolica; la bambina figlia di separati diventa OGNI figlia di separati, tutti bambini che cioè soffrono silenziosamente e talvolta azzardano manovre di avvicinamento tra i genitori.

E’ un gioco, almeno un po’, sporco. Perché intanto Esselunga ha realizzato questo spot per innalzare ulteriormente i profitti (probabilmente ci riuscirà), e non per riaprire il dibattito sociologico sul ruolo della famiglia nella società italiana. Ed essendo una operazione di marketing, vuol dire che qualcuno a monte ha deciso di ammiccare, questa volta, a “questi” piuttosto che a “quelli”. Va da sé che giochini non troppo puliti sono sempre possibili, per la medesima ragione, anche per operazioni con segni differenti. Manca infatti – sicuramente in Italia – un serio dibattito non sulla famiglia (quello ha stufato), ma sul ruolo della pubblicità e del marketing, sulla capacità di comprimere le scelte e di ridurre i margini di manovra delle persone che fanno la spesa, devono cambiare automobile, decidere un profumo, scegliere un distributore cui rifornirsi. Lo sintetizzo meglio: la pubblicità serve, oserei dire tautologicamente, a ridurre gli spazi di scelta dei consumatori, e mai il contrario. Questo sì sarebbe un dibattito interessante ma, poiché investe interessi troppo alti e remunerativi, è probabile che non avverrà mai.

Mentre il dibattito sulla unitarietà delle famiglie e e la libertà dei soggetti invece imperversa come sempre. Leggevo ad esempio su Facebook ciò che ha scritto un mio grande amico, il quale – anche, ma non solo perché divorziato – criticava in modo perspicace appunto la scelta di girare uno spot simile. Una critica che, sia chiaro, condivido fino in fondo. Ma la cosa che mi ha colpito di più è stata una replica, suppongo di un conoscente cattolico, al suo post. 

“Oddio oddio uno spot Esselunga mi ricorda che il divorzio dei genitori fa soffrire i figli! Come osano ricordarmi delle mie responsabilità?”

Niente di particolarmente intelligente o perspicace, ma un tipo di posizione che vedo, estremamente diffusa in quel mondo, la quale si fortifica con l’inerzia della cose (presunte presuntuosamente) ovvie, o persino delle tautologie.

Dire che gli adulti abbiano delle responsabilità nei confronti dei bambini è talmente ovvio, da rasentare la banalità. Ma qui si allude che la responsabilità di non far soffrire i bambini sia quella di evitargli il dolore del divorzio. Ecco la mancanza di complessità. Ecco la facezia. E la conseguenza è l’arroganza. Perché i bambini soffrono – oserei dire comunque – per una serie di cose che vanno molto al di là della separazione dei genitori. Intanto è vero, i bambini hanno bisogno di “continuità”, ovvero quando devono affrontare dei cambiamenti il loro tasso di ansia e di insicurezza cresce a dismisura. Aggiungo che oltretutto questo avviene in un ordine di grandezze disomogeneo. Per esempio un bambino può patire follemente un trasloco, mentre un altro convivere con relativa serenità il succitato divorzio. Questo può dipendere da fattori sia personali e soggettivi, ma anche da altri culturali. Sui primi non posso dire nulla, perché non c’è una ricetta sulla gestione dell’ansia che valga egualmente ogni bambino preoccupato (sottolineo tuttavia che patologie psichiche anche molto serie, come la depressione infantile, molto molto spesso sorgono proprio nelle cosiddette famiglie tradizionali, cui proprio la struttura eccessivamente rigida può favorire; nonché molti bambini possono soffrire di abbandoni pur con i genitori allacciati per tutta la vita).

Insomma la realtà è profondamente complessa, e il desiderio di ovvietà con la complessità, non si accompagna mai bene. I genitori sono certamente responsabili di arrecare il minor dolore possibile ai figli – pensare di esserne tuttavia esenti è di una stupidità criminale -, ma la cosa va articolata meglio. Intanto, in primo luogo, un bambino soffre un cambiamento in misura direttamente proporzionale alla convinzione in lui instillata che il cambiamento sia impossibile, o che sia “male”. I bambini non hanno solamente, fino a una certa età, uno scheletro molto elastico, ma anche una psiche altrettanto fluida e adattabile a contingenze differenti. Se avviene un eccessivo irrigidimento è facile che siano stati proprio gli adulti – quelli di cui si invoca la responsabilità anche a sproposito -. In un mio testo, Un elefante in cucina, facevo l’esempio per cui, se un elefante non riesce a uscire dalla mia cucina è per una duplice ragione. Una palese, l’altra invece sostanzialmente ignorata. La prima sono le dimensioni del pachiderma, e l’altra è rappresentata dall’ampiezza e dall’altezza degli archi e degli stipiti di casa mia. Mutati mutandis, se un bambino non riesce ad accettare un cambiamento potrebbe esserci irrigidimenti e fissazioni, a proposito delle quali la responsabilità dei genitori non si è attivata – per ignoranza o pregiudizio -, oppure ha lavorato in senso contrario a ciò che effettivamente serve al figlio. La vera responsabilità di un adulto non è quella di promettere a un bambino che un cambiamento non avverrà mai, ma che se anche dovesse avvenire, questi ha tutti gli strumenti per poterlo affrontare e gestire. 

Mi piace citare spesso un witz di James Hillman, di cui va ricordata l’origine ebraica, tratto dal suo lavoro Puer Aeternus:

C’è una storiella ebraica, una delle solite barzellette degli ebrei sugli ebrei, che dice: Un padre, volendo insegnare al figlio a essere meno pauroso, ad avere più coraggio, lo fa saltare dai gradini di una scala. Lo mette in piedi sul secondo gradino e gli dice: «Salta, che ti prendo». Il bambino salta. Poi lo piazza sul terzo gradino, dicendo: «Salta, che ti prendo». Il bambino ha paura ma, poiché si fida del padre, fa come questo gli dice e salta tra le sue braccia. Quindi il padre lo sistema sul quarto gradino, e poi sul quinto, dicendo ogni volta: «Salta, che ti prendo», e ogni volta il bambino salta e il padre lo afferra prontamente. Continuano così per un po’. A un certo punto il bambino è su un gradino molto in alto, ma salta ugualmente, come in precedenza; questa volta però il padre si tira indietro, e il bambino cade lungo e disteso. Mentre tutto sanguinante e piangente si rimette in piedi, il padre gli dice: «Così impari: mai fidarti di un ebreo, neanche se è tuo padre».

Questo aneddoto, che può far raccapricciare molti, in realtà è ricco di un insegnamento molto profondo. La fiducia del bambino viene “tradita” (il tradimento è il tema dell’opera) dal padre, il quale così, però, gli impartisce un insegnamento fondamentale: i tradimenti, i cambiamenti (anche radicali) NON UCCIDONO, e possono essere affrontati con la consapevolezza che, se anche papà si è tirato indietro, il bambino è in grado di rimettersi in piedi DA SOLO. Ribadisco: seppure l’esempio sia volutamente paradossale, quel genitore esercita la propria RESPONSABILITÀ di educatore in modo intenso ed efficace. Quel bambino in futuro sarà maggiormente in grado di gestire le delusioni amorose, gli insuccessi professionali e i cambiamenti esistenziali.

Alla bambina della pubblicità ESSELUNGA una cosa gliela possiamo augurare. Che il suo gesto, per quanto carico di ingenuità, abbia “successo” solo se vi sono solide ed effettive motivazioni. Perché se mamma e papà, commossi dal gesto, decidessero di tornare insieme unicamente per quel frainteso “senso di responsabilità”, per il timore che la figlia debba soffrire troppo, allora sarebbero loro a diventare infelici, e prima o poi quella bambina, magari diventata adulta, dovrebbe riscontrare di essere diventata la causa della infelicità dei propri genitori. E questo è un peso che NESSUNO, nella vita, dovrebbe mai portare. 

Gli Addii e il Destino (che non c’è più)

Cosa hanno in comune il piccolo Manuel e Silvio Berlusconi (oltre all’ovvietà di avere lasciato questa vita negli stessi giorni). Il Cavaliere solo poche settimane fa, dal suo superattico sanraffaelita , ha indossato giacca e cravatta per annunciare che era ancora lì, a riorganizzare il partito e che presto bla bla, annunciando ch’era sempre alla guida del partito. Insomma, non rinunciava a portare avanti la particolare sfida di longevità politica (e biologica) Mentre per il piccolo Manuel lo sconforto ha tutto un altra dimensione perché, a 5 anni, aveva letteralmente tutta la vita davanti. È impossibile non rimanere sconvolti per il contesto che ha causato l’incidente, la “challenge” tra cinque seguitissimi pirla (youtuber), a guidare una mastodontica macchina di lusso ininterrottamente, alternandosi alla guida, per cinquanta ore. Eppure anche qui c’è qualcosa che stona. Stona ulteriormente intendo. Le analisi – sacrosante – di semiologi, studiosi del costume, sociologi si sono messi a osservare che questa è l’epoca della antipatia (nel senso di assenza di empatia); ed è difficile dare loro torto se il padre del ventenne decerebrato parla di una “ragazzata” e “che tutto si sistemerà”. Ma in fondo anche questa più che arroganza finisce per sembrare una sostanziale incapacità di realismo, (“accade solo quello che non ci fa soffrire”, si direbbe). Eppure quel riferimento, becero, alla “sistematibilità di ogni circostanza” mi ha fatto tornare in mente proprio il delirio di onnipotenza di Berlusconi (i cui accoliti per altro insistono sul fatto che Silvio, nel contesto di celebrazioni funerarie alla Kim Il-sung, continuerà a essere al centro del progetto politico di FI. Allora mi domando: cosa deve succedere per uscirne, per uscire da tutto? Mi vengono in mente quei film americani, di guerra, dove la recluta più sprovveduta, un po’ maldestra, viene farcita di piombo nemico, con tutte le interiora sparpagliate per qualche decina di metri quadrati, ma i cui commilitoni non riescono a dirgli altro che “andrà tutto bene”. Perché dovrebbe andare tutto bene? Perché dubitare dell’intelligenza della recluta nel giungere a una conclusione appena più realistica? Da dove nasce  che ci fa pensare che le cose non possano che andare bene? La verità è che non lo sappiamo. Ogni volta che una persona amata valica l’ingresso di casa per andare a comprare le sigarette, può succedere LETTERALMENTE qualsiasi cosa. Dovremmo quindi vivere avviluppati dall’angoscia dell’incognito? Forse, almeno un pochino, sì. Confesso mi piaccia pensare che noi abbarbichiamo una rappresentazione “normale” dell’umana esistenza per poi lasciare, ad esempio, ai film horror di dare una opaca rappresentazione dell’altra parte, seppellita nell’inconscio, non solo di ciò che ci potrebbe accadere, ma delle forze irrazionali che fanno da contraltare al mondo che preferiamo raccontarci. 

Quando ero a Berlino, un sera presi i miei studenti e li costrinsi – era ora di cena – a visitare apochi portoni di distanza una stolpensteine. 

La mattina dopo, in procinto di ripartire per l’Italia, scendendo la scala a chiocciola, feci un volo spaventoso. L’ironia è sempre in agguato. Avevo voluto insegnare ai miei ragazzi “le pietre di inciampo”, ma alla fine ad inciampare ero stato proprio io. Nel modo più goffo possibile, poi. Il bilancio – alluce e sterno rotti – si dimostrò immediatamente benevolo, ma occorreva davvero poco, pochi centimetri più in qua o in là, e sarebbe andato tutto molto peggio. La verità è che ci piace raccontare che le nostre città siano “sicure” (e se il termine di confronto fosse Goma, nel Congo orientale, o la messicana Juarez né avremmo tutte le ragioni).

Ma è tutto relativo. Camminiamo per tutta la vita su una lastra di ghiaccio più sottile di quanto vorremmo. Più scivoloso di quanto ci piacerebbe confidare. E quindi si muore. Intendiamoci tutte (o quasi) le politiche volte alla salvaguardia degli innocenti, i posti di blocco, le pattuglie di polizia, i controlli continui potrebbero, dovrebbero diminuire le tragedie. E su questa strada si deve, con discernimento, insistere. Questo porterebbe però a diminuire le tragedie, ma non eliminarle. perché questo non è possibile. Ogni volta che un fiume esonda – provocando ovviamente molti danni a cose e persone -, allora sugli scranni degli accusati arrivano pubblici amministratori, le autorità dei fiumi. Perché – si noti bene – viviamo all’interno di un paradigma, secondo il quale “ogni evento, ogni morte è prevedibile, ogni tragedia è annunciata (fare caso, per favore, a quante volte i giornali titolano così, spesso a poche ore), ogni evento è riconducibile a un responsabile”. Perché se si individua un capro espiatorio allora le tragedie sono più difficili a verificarsi.

Ecco, io non vorrei essere frainteso quindi lo ripeto, ogni tragedia dovrebbe – NEI LIMITI DEL POSSIBILE E DELLA RAGIONEVOLEZZA – essere evitata, le contromisure tutte sollecitate, ed è questo un lavoro immane che ci tocca ancora fare.

Ma c’è una cosa che mi lascia sempre basito davanti a questo tipo di contestazioni, ed è che per quanti strumenti ci si possa dotare, per quante strategie vengano prefissate, per quanti logaritmi possiamo applicare al traffico o alla guida dei veicoli, non basterà mai. Benedico ognuna delle cose che possano aiutare in questo senso, vorrei moltiplicare ogni fattore di sicurezza nei limiti del possibile e del ragionevole.

Ma quello che mi chiedo è se non sappiamo più morire. O, se si preferisce, non sappiamo più che si debba morire. E non sappiamo più dire “Addio”. Solo qualche fa un uomo nato molto lontano da qui, il Dalai Lama, disse una cosa per me illuminante:

“Quello che mi ha sorpreso di più negli uomini dell’Occidente è che perdono la salute per fare i soldi e poi perdono i soldi per recuperare la salute. Pensano tanto al futuro che dimenticano di vivere il presente in tale maniera che non riescono a vivere né il presente, né il futuro. Vivono come se non dovessero morire mai e muoiono come se non avessero mai vissuto.”

Da un certo punto di vista Tenzin Gyatso partiva avvantaggiato, perché il fondatore della sua religione, il Principe Sakyamuni (il Buddha) 2600 anni fa aveva fatto iniziare il proprio percorso  esattamente con la scoperta della morte, della malattia e della vecchiaia. Esattamente le dimensioni che la nostra società si adopera alacremente per obnubilare, quantomeno dal vocabolario, dagli immaginari e soprattutto per occultare alla vista di tutti. Certo la morte è ingiusta, scandalosa, specie quando colpisce i più innocenti, chi ha una vita davanti, quando cinque imbecilli giocano con la vita degli altri, o – persino peggio – quando le logiche neocolonialiste e una indifferenza criminale comporta la totale estirpazione di quel poco d’umano che c’è rimasto, quando le cosiddette nazioni civilizzate assistono senza alzare un dito all’affondamento di pescherecci carichi di disperazione, di donne e di bambini.

Ci scandalizziamo giustamente davanti a tutte queste morti. Tuttavia è come se ci fossimo dimenticati che morire è l’esperienza più naturale e inevitabile. Ci manca il senso del lutto. In analisi l’elaborazione del lutto vuol dire che, a un certo punto, ci si sente pronti a lasciare andare qualcosa o qualcuno, qualcuno che non ci sarà più. Nel bellissimo “La mia Africa”, quando Denys si schianta con l’aereo, al funerale Karen prende un pugno di sabbia per riversarlo sulla fossa dove lui è ormai seppellito, ma non riesce ad aprire la mano e così tiene stretta a sé proprio la sabbia. Non “lascia andare”.

Già, ma andare “dove”? Perché da un certo punto di vista le religioni – almeno quelle che ci riguardano più da vicino – ci risolvono una serie di problemi, paradossalmente esasperandone un altro. Un sacerdote cattolico, ad esempio, durante l’omelia fa riferimento a un “oltre”, dove la persone che muoiono “smettono di soffrire” e “vivono al cospetto di Dio”. Tutto bene, per chi confida in questi valori. Il problema è che il Cristianesimo ha da circa 1600 anni abbracciato la filosofia ellenistica, arroccandosi prevalentemente sul capostipite di questo, un certo Parmenide, per il quale le cose o sono, o non sono. Ovvero al Cristianesimo – ma potrei fare altri esempi – manca la cosiddetta ambivalenza, la presenza nella assenza e l’assenza nella presenza. Quella che Jung chiamava la Coniunctio Oppositorum, quella sintesi degli opposti che a Oriente hanno appreso molto prima di noi. Una sintesi degli opposti che consentirebbe, se adottata anche alle nostre longitudini, di immaginare che le persone si possono lasciare andare, perché qualcosa comunque resta, qualcosa si allontana, intraprende un viaggio nel regno delle ombre, ma non se ne va mai del tutto. Non verso un aldilà, a meno che si riesca a pensare alla parola “aldilà” in modo differente da come sempre effettuato.

A prescindere da ogni convinzione religiosa. La morte è una tragedia, ma non superiore per esempio all’avere sprecato ciò che l’ha preceduta.

C’è uno dei film che amo di più, purtroppo semi sconosciuto: “Il Dolce Domani” (The sweet hereafter). La regia è di Atom Egoyan, il romanzo di Russell Banks. Vi si racconta di un minuscolo villaggio canadese, Sam Dent, perduto sulle Montagne Rocciose. Un giorno lo scuolabus, con tutti i bambini a bordo, esce di strada e finisce su un laghetto ghiacciato, dove dopo aver crepitato qualche secondo, finisce sul fondo. Tutti i bambini muoiono. Tutto il paese, il suo futuro, il significato attribuito all’esistenza muore in quel momento. Ma per qualche settimana gli abitanti del paese, coperto di neve e ghiaccio, è come se non riuscissero nemmeno a codificare il dolore, così continuano le proprie routine. Giunge sul luogo però un avvocato (Ian Holm) il quale scientemente comincia a sobillare che di quell’incidente andrebbe individuato il responsabile – non l’autista, Dolores, sopravvissuta insieme a Nichole, l’accompagnatrice adolescente -, lì non c’è niente da spremere. Occorre arrivare più in alto, alla compagnia che gestisce le strade, oppure l’industria che ha costruito il pullman. L’avvocato, così come il pifferaio di Hamelin, dapprima non viene ascoltato, ma progressivamente trova e consolida il suo seguito. I genitori di Sam Dent devono “solo” lasciare che egli trasformi il loro dolore, ancora congelato, in un odio incandescente. E quasi riesce nella sua opera, se non incontrasse due strani alleati, dapprima Billy Ansel, che quella mattina viaggiava a pochi metri dal pullman. Ha visto tutto, e proprio perché ha visto che non vuole sentir parlare di negligenze o di colpe. Billy Ansel che ogni volta che rivede l’autobus, dove i suoi gemelli sono periti, al posto di accusare e imprecare, si leva il cappello, come per un saluto, una perdita provvisoria, un rimando a un incontro che sta oltre l’orizzonte dell’esperienza. E infine Nichole  che mente al tribunale, e dice che l’autobus viaggiava troppo veloce. Lei ha capito il mondo degli adulti. Lei che non è più bambina e che una sedia a rotelle impedirà di diventare grande come avrebbe voluto. Il mondo degli adulti è infingardo, il padre con il quale intratteneva una relazione incestuosa non si volgerà più a lei. Tanto vale rompere quella cosa cui sembrano tenere tanto: la vendetta, l’odio, l’odio necessario per attribuire un significato a ciò che accade. No, Nichole è la bambina claudicante di Hamelin che il pifferaio non riesce a trascinare dentro la montagna. E va bene così, perché da quando il demone viene allontanato, – il demone necessario, quello della rabbia, quello per cui ogni avvenimento è riconducibile a un colpevole -, da quel momento “tutti i bambini, quelli vivi e quelli morti vivono in un dolce domani.”

Ovviamente non voglio convincere nessuno, soprattutto su tematiche talmente delicate. Nessuno può presumere quale sia la soglia di dolore che un’altra persona possa sperimentare. Non è questo il mio intento. Ma forse dovremmo imparare a non trattenere la terra in mano, dovremmo reimparare una parola come Destino, e non deve essere per forza un destino ultraterreno. Magari è il Destino della materia, forse quello delle stelle di cui siamo fatti, magari quello della reincarnazione, magari un eterno ritorno. Ma di sicuro occorre imparare a staccarsi dalle cose che amano, cosicché possano fare il proprio viaggio, finanche oltre le brume della morte. Ma un Destino c’è, e là, là in fondo, un giorno ci ritroveremo.

Ruanda’s calling

Anche questa volta Netflix, con la miniserie Black Heart Rising, ha fatto centro. Una produzione britannica, dove con linguaggio duro, talvolta scabroso, riemergono gli aspetti conosciuti, al pari di quelli rimossi, del genocidio ruandese, che ebbe luogo tra aprile – con l’omicidio del presidente Habyarimana (Hutu) e nei cento giorni successivi, dove a perdere la vita sono stati quasi un milione di Tutsi, nei modi più raccapriccianti. Un genocidio vero, programmato con meticolosa precisione nei mesi precedenti. Gli ingredienti ci sono tutti: il delirio paranoico, le radio che trasmettevano h24 messaggi dove si inneggiava, appunto, al massacro, l’immancabile creazione di una milizia (preparata dall’esercito regolare, ma anche dai francesi che non volevano rinunciare ad alcune “opportunità”, costasse quel che costasse) che non aspettava che il momento di poter sprigionare tutte la violenza accumulata fino a quel punto. Il Ruanda, il paese più cattolico del continente nero – molti osservatori internazionali – a partire da Boutros Ghali, che non volevano farsi coinvolgere in una nuova Somalia, erano pronti a minimizzare sistematicamente i dati terrificanti che provenivano dagli osservatori, se potevano confidare che Habyarimana “tutte le domeniche andasse a messa”. Un odio ancestrale quello tra Hutu e Tutsi, che tuttavia era radicato in un passato non troppo remoto, perché la “distinzione” tra le due razze proveniva dall’occupazione del Belgio,il quale dopo la conclusione della prima Guerra Mondiale – non contento dei disastri compiuti nel limitrofo Congo – doveva immagazzinarne ancora qualcuno in quel paesino, poco più grande del Piemonte. E chi meglio dei missionari, i famigerati padri scheutisti che cominciarono a stabilire che una delle due razze, quella più armoniosa, con i lineamenti più slanciati, il naso sottile, nonché la minoranza non dovesse acquisire la leadership del paese? Nei decenni ci furono anche cambiamenti di prospettiva, sempre “lanciati dall’alto”, ma che riuscirono solamente a inasprire gli animi, a mantenere fiamme vivide sotto la brace.

La serie tuttavia non si svolge nel 1994, ma ai giorni nostri. La protagonista è Kathe una giovane donna britannica, figlia di Eve una esperta procuratrice, specializzata nel perseguire crimini “tiepidi”di guerre lontane del tempo. Lei in Ruanda, nel 94 c’era, ha visto l’orrore ed è riuscita a salvare proprio quella bambina, portandosela al salvo, in Gran Bretagna. La storia si apre quando l’indomita Eve accetta di perseguire, per conto della corte dell’Aja, un Tutsi, un “eroe di guerra”, membro del Fronte Patriottico Ruandese – quello del mai citato Paul Kagame -, l’organizzatissimo esercito Tutsi che, prima – e senza – le democrazie occidentali, aveva rovesciato le sorti del paese. Tuttavia il profilo di questo eroe viene comunque tratteggiato un po’ più ambiguo di quanto avrebbe dovuto: egli si presenta, da ruandese, al confine tra Congo e il paese delle mille colline, con una divisa diversa da quella ordinaria. Percorre a lunghi passi furiosi il tratto tra le sbarre che demarcano gli sbarramenti militari. Chiede di parlare con un ufficiale, e protesta a lungo che i suoi camion siano bloccati – da un po’ – dalla parte congolese. Cosa portassero quei camion non viene precisato, ma non occorre una immaginazione particolarmente fertile. Torniamo in Inghilterra, con Eve che parte per processare l’eroe Tutsi, raccogliendo per questo il feroce disappunto della figlia. Lei la il genocidio non l’ha vissuto, sebbene non ne sia stata risparmiata. Cresciuta con la consapevolezza di essere sopravvissuta, tirata via dai capelli da una morte certa e terribile, ora si oppone con tutta se stessa a vedere processare uno dei “buoni”, uno di quelli che il suo popolo ha provato a salvarlo. Ma le cose si complicano, intanto perché in Olanda la madre viene uccisa da un commando, insieme all’imputato designato. E il quadro continua a complicarsi, ad aggiungere colpi di scena, mescolando geopolitica e temi di una Spy Story, talvolta pertinente, altre invece ridondante (come ad esempio la descrizione di una leadership ruandese, che finisce per assomigliare allora stato maggiore del Pentagono. Anche troppi intrighi insomma, e non tutti di semplice lettura.

Ma il quadro che alla fine emerge è – uno dei colpi di scena – che Kathe non è in grado di sopportare. Intanto perché la sua storia non le era stata raccontata per intero: Kathe non è una Tutsi, come aveva sempre saputo, ma una Hutu. E sì era stata strappata da morte certa, ma non perché gli Hutu stessero massacrando la sua famiglia, ma perché i Tutsi, vinta la guerra in patria, avevano preso a rincorrere quelli che fuggivano oltre il confine del Congo. Proprio lì, in uno degli sconfinati campi profughi, teatro della prima e della seconda guerra congolese – un crimine che non vengano studiate a scuola – dove per caso è sopravvissuta a una epurazione dove erano morti 50000 Hutu inermi. Dapprima il dolore la fa avvitare in una spirale angosciante, poi piano piano comincia ad accettare la complessità delle circostanze, fino ad essere direttamente germinata da quella complessità.

La serie può concludersi qui, ma la rigidità di alcune parole inserite all’interno dei dibattito storiografico, invece dovrebbe cominciare proprio qui. Perché proprio il Ruanda, come nessun altro avvenimento, recente o non, non consente di collocare “gli eventi e le responsabilità” secondo dei rigidi canoni euristici per cui ci sono i cattivi, il cui unico compito è sversare tutto il veleno che hanno in corpo, e i buoni, che rimediano e puniscono quelli del primo gruppo. Queste sono categorie che appartengono all’uomo europeo, alla semplificazione tutta occidentale, al voler far chiarezza anche quando le circostanze storiografiche non consentono di andare oltre a una certa opacità. Purtroppo di buoni, senza macchia e senza paura che, animati da ideali sempiterni non ce ne sono. Non ce ne sono, probabilmente, mai stati. E’ vero che taluni eventi come la seconda guerra mondiale ci hanno quasi sequestrato all’interno di una lettura univoca ed infinitamente semplificata dei fenomeni storici. A soccombere non è la corretta visione dei torti da assegnare – Shoah ad esempio, ma non esclusivamente – e dei meriti da attribuire, ma quella di una rappresentazione della storia meno semplicistica. Quello Ruandese è un genocidio a tutto tondo – diversamente dalle troppe volte in cui giornali e politici si lasciano attrarre troppo dall’enfasi con cui è troppo facile lasciarsi sedurre da certe parole. Ma questo genocidio è pieno di sfaccettature, di travasi di sentimenti e di sangue, dove chi  aveva – ha – la piena titolarità per fregiarsi di quel titolo, di chi ha pagato un enorme dazio in termini di vite e di sangue versato per le strade, in un altro tempo non ha esitato a usare approcci non troppo dissimili, sia per “vendicare” i genocidi della prima tornata, se non che – per me decisamente, se possibile, peggio – per lucrare sulla enorme quantità di materie prime reperibili – dal punto di vista ruandese – appena oltre il confine con la RDC, scatenando, insieme ad altri protagonisti, le due “guerre mondiali del Congo”, che pure non potrà essere considerato “un genocidio”, tuttavia il numero di morti del secondo (1997/03) al non invidiabile target di essere il secondo conflitto della storia umana più pesante in termini di tributi umani. Il tutto condito dalla naturale indolenza dei paesi più sviluppati (durante il genocidio ruandese qualche esperto di media francese aveva rilevato una avvilente statistica: la percezione pubblica dei media occidentali è sollecitata analogamente dall’omicidio di un “bianco” oppure da 87.000 africani: un bilancio sconcertante

E così, come gli Hutu durante il genocidio avevano goduto di una importante impunità (per esempio i francesi di Miterrand erano legati a doppia mano con gli insorti), altrettanto ha potuto fare con poche preoccupazioni gli uomini di Paul Kagame, eroe, presidente e dittatore Tutsi, invasore del Congo, sterminatore degli Hutu rimasti nei campi profughi, e che una volta scomputo il misfatto, rimanevano in loco, a causa delle sterminate risorse minerali, delle quali i congolesi sapevano poco cosa farci, mentre le milizie armate avevano un’idea invece molto precisa su come sarebbero riuscite a fare ripartire l’economia di Kigali. Certo significava riproporre lo schema che fu già del “sovrano illuminato”, Leopoldo II del Belgio, il “proprietario privato” (sic!) dello sterminato Congo tra il 1885 e il 1906. Per convincere quei “selvaggi” a raccogliere l’enorme quantità della gomma, resa indispensabile dalla nascente industria dei pneumatici, veniva imputata ai più pigri, o ai bambini che non potevano reggere certi ritmi di lavoro.

E così anche 90 anni dopo, gli M23 di affiliazione ruandese, si sono messe a soggiogare le popolazioni inerti con stupri, omicidi di massa, affinché quella gente si mettesse a cercare l’oro grigio, il Coltan, senza il quale i cellulari sarebbero una dolce utopia. Siamo noi gli utilizzatori finali del Coltan, è a causa nostra se il gigante congolese non troverà mai pace.

E intanto il Ruanda – immemore del genocidio di 29 anni fa, si è messo a produrre cellulari, i primi smartphone 100% africani. Africani, non ruandesi visto che i giacimenti di cobalto e coltan del paese sono del tutto insufficienti.

 

La vita non è così bella…

Milano, 3 aprile, a scuola c’è la cogestione, io sono tra i docenti “a disposizione”. Molto bene. Ho già puntato un incontro sulle neurodivergenze, relatore qualificato. E invece all’ultimo mi chiamano in una classe dove dovrò far vedere “Il grande dittatore”. Beh, peccato per le ND, ma non sono cascato male. Tuttavia quando entro in 1H, c’è uno studente che smanetta e ha già – problemi di disponibilità in streaming, immagino – dirottato su “La vita è bella”. Non visto, storco un po’ il naso. E’ vero non mi è mai piaciuto; poiché tuttavia non riuscivo a focalizzarne il motivo, mi ero obtorto collo inserito nella schiera di quelli che: “Sì, non è il mio preferito ma…”. Ma un corno. Oggi ho capito molto meglio il motivo del mio disappunto, nonché della ragione per cui Benigni non è e non sarà mai Charlie Chaplin (anche se lui ha passato la vita – artistica – a tentare di convincerci del contrario). La comicità più nobile riesce sempre a mescolare simbolicamente – syn ballein, “tenere insieme” – gli aspetti più grotteschi con quelli struggenti, la farsa e la tragedia.

Mi sovviene un passaggio di “Questi fantasmi”, di Eduardo De Filippo, dove l’ingenuità del protagonista viene contrapposta al cinismo del tradimento coniugale. A un certo punto Pasquale esce di scena con un altro personaggio. Mentre è fuori scena, il tradimento prende forma e giunge quasi all’epilogo, fino a un passaggio dove si prepara la scena dell’abbandono, di un dolore palpabile e imminente che sta per essere, ingiustamente, somministrato. A quel punto Pasquale rientra in scena, con l’amico, mentre agitano gli ombrelli per propiziare i fantasmi che lui pensa infestare la casa. La contraddizione delle emozioni è lacerante, il buffo si allaccia in un istante alla sofferenza indicibile, fermata ancora in istante fuori dalla finestra. E si scoppia a ridere, mentre si avrebbe voglia di piangere. Ecco questa è la vera cifra comica. Edoardo De Filippo l’avrebbe potuta insegnare a tutti, mentre Benigni ne è, io credo, incommensurabilmente distante.


Me ne sono accorto nel passaggio probabilmente più divertente, ovvero quando Guido si offre per fare l’interprete all’SS, nel capannone dove lui e Giosuè vivranno. Per quanto sia comicamente riuscito – non è questo il punto – mi aveva sempre dato fastidio una cosa, che il soldato tedesco non fosse, quasi sicuramente, interpretato da un attore di madrelingua. Ora, mi domando, se metti in piedi una produzione internazionale, cosa ci vuole far fare la parte del tedesco a un… tedesco? Poi ho pensato che probabilmente, all’origine della scelta, c’è un motivo, ed è proprio la necessità di aderire a una stereotipizzazione dei personaggi, affinché portino tutta l’acqua al mulino della comicità costruita e ostentata dal protagonista. Le SS non devono parlare tedesco, devono parlare ridicolo. Il torrente di una tragedia di immani proporzioni qui diventa poco più di un rivolo, rovesciato sull’abnorme dinamo egoriferita di Roberto Benigni. Ci viene raccontato che lui è un padre coraggioso, il quale giunge a rendere buffa persino la camminata verso il luogo ove verrà fucilato; il tutto per preservare la purezza del piccolo Giosuè, di quattro anni, nascondendogli l’orrore del lager. Tuttavia il vero puer non è Giosuè, ma il padre, che non smette di gigioneggiare neanche davanti all’imminenza della morte. Muore senza essere cresciuto.


E purtroppo l’obiettivo viene perfettamente raggiunto. Benigni “copre” con la propria bulimica caricatura la tragedia umana della Shoah – dalla cui violenza, fisica e simbolica, non furono certo risparmiati decine di migliaia di Giosuè -; la copre per il figlio e anche a se stesso, e la nasconde anche a tutti gli altri. La occulta a noi. Non c’è conflitto, non c’è “vero” dolore, se si fa eccezione per la conclusione, calibrata tuttavia in modo nuovamente grottesco. In sintesi si potrebbe dire che “La vita è bella” è una unica insistita e sfinente caricatura; tutti gli altri personaggi – a partire dalla monoespressiva Nicoletta Braschi – sono esclusivamente spalle del mattatore di casa. Infatti le rarissime volte in cui questo esce dal registro farsesco, non è minimamente credibile. Il film è un pretesto, un maquillage, dove la buffoneria del comico ingoia surrettiziamente la tragedia, la rende indisponibile poiché toglierebbe attenzione a lui. Gli spettatori vengono sin dalle prime battute avvisati (il prologo del corteggiamento di Dora è lungo e stucchevole) che non devono aspettarsi altro da questo. Non c’è “un Guido Orefice e l’Olocausto”, ma solo il Gargantua di Toscana che, da istrione consumato, prosciuga ogni centilitro di attenzione su di sé, e su niente altro. Dispiace, ma è un film scaltro, non intelligente.

Io sto con Barbara

La notizia, se notizia si può chiamare, ha ingolosito molti cronisti di quotidiani on-line, impigriti dalle vacanze, desiderosi di accendere un po’ di carburante, di affilare le zanne per i mesi autunnali, e cosa poteva fare più rumore di questo: “una psicologa di sinistra – ‘molto attiva sui social’ (una specie di sentenza di presunzione, come dire che non abbia niente di meglio da fare…) – crocefigge un ragazzino di Calenda e Renzi, reo di mostrarsi con ‘un Rolex’ (ma no, ‘è un Audemars Piguet’, ha sottolineato il diretto interessato, perché se volete invidiare i ricchy dovete imparare almeno le basy)”. E via  con i rimbalzi social, le prese di posizione anche molto dure, i rimproveri e le shit storm contro la suddetta dottoressa, una specie di nuova Savonarola del web, pronta a imprimere lettere scarlatte infamanti sui degli sprovveduti e insipienti sbarbatelli, che si affacciano alla vita del paese. Alla fine sono arrivate persino le lettere sdegnate all’ordine degli psicologi (che speriamo abbia di meglio, oppure niente, da continuare a fare).

Ecco, volevo dire la mia in merito, ed è che mi schiero con Barbara Collevecchio (@colvieux). Forse non avrei intrapreso la battaglia, sicuramente avrei mollato parecchio prima, ma sono altresì convinto che fosse, e sia, perfettamente legittimo perorarla.

Due considerazioni in merito al supposto abusato, un ventunenne pariolino (no, non è illegittimo né avere 21 anni, né adottare uno stile di vita borghese, e – preciso subito – non c’è un limite al numero di orologi costosi che si possa portare sotto il polsino). Il caro Roman Pastore è perfettamente legittimato a fare quello che gli pare. Se vogliamo probabilmente sarà anche il personaggio che godrà del maggior numero di vantaggi conseguenti alla diatriba: in poche ore il suo nome, da marginale candidato calendariano a un municipio di Roma, è stato proiettato nella politica nazionale, e se tanto mi dà tanto, sentiremo parlare nuovamente di lui nel corso di pochissimi anni – anche per ciò che gli è accaduto negli ultimi giorni -. Se questa sia una fortuna o una iattura, lo sapremo esclusivamente dopo.

Quello che vorrei fosse chiaro, e almeno per me è chiaro, è che le scelte di Roman, persino quale orologio decida di indossare, o quante migliaia di Euro possa costare, sono discutibili almeno secondo due prospettive differenti. Intanto è un maggiorenne, con (almeno) un profilo social, perciò quel che lui decide di mostrare – e persino l’ostentazione sguaiata con cui mostra, orgoglioso, un orologio che la maggior parte di noi, io di sicuro, non avrà mai – è “opinabile”, ovvero passibile di opinioni favorevoli o contrarie. Non è sbagliato, certo non necessariamente, ma se ci si mostra è perché si passa dall’essere (esclusivamente) soggetti a oggetti di dibattito. Può non piacere. Anzi, se devo dire a me non piace, ma trovo sarebbe disonesto creare delle verginità a posteriori, per cui un comportamento, socialmente rilevante – è il soggetto/oggetto a farlo rilevare – può essere discusso. Non delegittimato ma, appunto, fatto oggetto di osservazioni. Una volta, ero supplente in una scuola media, un ragazzino, il quale si comportava in modo molto difficile da gestire per noi insegnanti, prese una sanzione disciplinare piuttosto pesante. Sapemmo poi che il pomeriggio stesso la madre lo aveva condotto in un centro commerciale e gli aveva preso le costosissime Adidas – proprio quelle che voleva tanto -. Insomma, lo premiò invece che dargli un segnale diverso. L’azione di quella madre è legittima? Perfettamente. 

Sarebbe stato legittimo perseguitare ragazzino – in quel caso, avendo tredici anni, lo era di sicuro -, gridandogli “viziato” ad ogni piè adidasianamente sospinto? Ovviamente no. Ma se la madre avesse pubblicato una story su Instagram, con tanto di foto dello scontrino, in cui coccolava il suo pulcino, così poco compreso e valorizzato dai suoi docenti, si sarebbe prestata a qualche critica? Ancora sì. Per esempio quando un paio di anni fa il figlio di Salvini, al tempo quindicenne, si fece una scorrazzata sulla moto d’acqua della polizia, la cosa fece discutere molto. Il padre rispose a ogni critica mossa, dicendo che “non si toccano i bambini!”, ma aveva torto. Il suo “bambino” aveva come più o meno ogni quindicenne normodotato una voglia matta di andare su una moto d’acqua, e non fa una grinza. Ma le responsabilità degli adulti, l’accondiscendenza delle forze dell’ordine, un certo bullismo da parte di chi deteneva un potere reale nel paese, un “faccio il cazzo che voglio”, sono cose che possono – devono? – essere stigmatizzate. Si può discuterne? Ancora un sì.

I social sono diventati luoghi dove si professa una assertività univoca, talvolta turpe, spesso ineducata, ostile a priori, e non possiamo fingere il contrario. O chiudiamo, e ripensiamo il ruolo dei social nella nostra esistenza, o non possiamo sfilare il filo d’erba che ci è andato di traverso. Non ci limitiamo a essere le nostre scelte, ma anche di rappresentarle, oneri e onori compresi.

Anche perché Roman Pastore non solo è maggiorenne e (spero) vaccinato, non solo sui social fa una ostentazione insistita di orologi costosissimi, ma il giovane rampollo, candidato di Calenda – come già detto – in una delle municipalità della capitale, compare anche tra gli scalpitanti puledri della scuola politica di Matteo Renzi, e anche questo è rilevante. Roman deve comprendere che la nostra è una democrazia rappresentativa, e chi si sporge verso il mondo dei rappresentanti, si espone una seconda volta. Ciò che fa, persino del proprio denaro, pur se continuerà a essere perfettamente legittimo, sarà potenzialmente oggetto di dibattito. Lo si potrà giudicare opportuno o meno, di buon gusto oppure no. E se decide – legittimamente, per carità – di partecipare alla scuola politica, di quell’istrione che porta il nome di Matteo Renzi, che nel nome di una cultura che si dice “meritocratica”, che è stato segretario di quello che fu un vero partito di sinistra, dice di voler – dal proprio scranno del 2% dell’elettorato – abolire ogni forma di reddito universale di cittadinanza, e lo fa indossando camicie ben stirate di lino, sfoderando abbronzature biscottate, sorrisi da borghesuccio arrivato, e al polso porti un Audemars Piguet da 30k, allora è bene sappia che chi si occupa della povertà nel paese, chi ha a cuore i meno fortunati, che conosce le storie di marginalità sociale (e psicologica, perché no?), le storie di ordinario abuso tra chi ha tanto, troppo rispetto a chi ha poco o niente, ebbene, può essere oggetto di critiche. Il suo personaggio – pubblico e social – potrà essere giudicato, così come il suo mentore, come un interlocutore triste e decisamente poco credibile. Sappia che il giorno in cui vorrà esporsi in pubblico con al collo il Kooh-i-Noor, farà qualcosa di legittimo quanto criticabile. Non gli è, a lui e nessun altro, data la possibilità di muoversi al di fuori di questo semplicissimo, quasi banale, meccanismo. Per fortuna.

Scritto di getto, e non riletto.

Bang!

“Bang!”.

Il grido rimbombò esagerato nella sala da pranzo dell’Ospizio. Dio si risvegliò di soprassalto con un filo di bava. Era stato davvero lui a gridare in quel modo? Nel sonno? Un’infermiera contrariata si stava avvicinando. Con un gesto sgarbato gli prese il fazzoletto umido, dimenticato come una lurida pochette, e gli asciugò l’angolo della bocca. Intorno gli altri anziani lo guardavano perplessi, e nella televisione laggiù in fondo una signorina con la faccia gialla sorrideva come una deficiente, e gridava quanto fosse contenta per un sapone. Lo sfarfallio disturbava la parte inferiore della immagine. Ma nessuno sembrava curarsene. Una deficiente, ecco.

Un vecchio con cespugli ispidi al posto delle sopracciglia, non si accorse di nulla e continuò a impilare carte sudice sulla cerata bianca a quadrettoni rossi. Era giunto a uno stallo, ma continuava a osservare le carte disposte sul tavolo con la speranza che si combinassero meglio da sole. Doveva essere molto stanco. La donna di fiori affondava per metà in una chiazza di caffellatte, a certificare il poco riguardo per il decoro e l’igiene. Un paio di richieste informali, blande proteste di parenti e persino la lettera di un avvocato – nipote alla lontana di una corpulenta anziana che, sei mesi prima, si era spenta poche settimane dopo il suo ingresso nel gerontocomio -, fiacche ed esili come ragnatele, galleggiavano inerti sulla scrivania della direzione; le buste ancora sigillate.

Dio era ancora confuso, si sentiva una palla di cannone nella testa per il brusco risveglio. Ringraziò l’infermiera sussiegoso , esagerato, e rivolse agli altri vecchi uno sguardo affannato che, nelle intenzioni, avrebbe dovuto rassicurare dall’eventualità che si ripetesse una cosa talmente incresciosa, bofonchiò delle scuse, che stava dormendo e… Quelli però nemmeno lo ascoltavano più, avevano ricominciato a guardare la tivù, a inseguire le carte rovesciate sui tavoli luridi, a borbottare nel sonno di sogni increspati. Una signora con la testa bianchissima, che indossava una vestaglia di seta cinese dai colori appariscenti, si era avvicinata col deambulatore alla TV per colpirlo fiaccamente ed eliminare lo sfarfallio. La signorina diafana continuò a sfrigolare della fronte in giù, senza curarsene, strillando invece di quanto fosse felice e con un alito profumato da quando usava  quel dentifricio.

Dio affondò i gomiti sui braccioli della sedia a rotelle e si issò di qualche centimetro,  gemendo e storcendo la bocca per l’affanno. Una fatica della malora! Le natiche gli dolevano, ma non si sarebbe lamentato, non lo faceva mai. E poi, a che sarebbe servito? Allungò una mano tremante verso la tazza di plastica azzurra, dove il tè era diventato freddo da un po’. Amaro, come sempre. Per quante zollette di zucchero, o pastiglie di dolcificante vi sciogliesse, non riusciva a farlo diventare un po’ più dolce. Di certo era perché le infermiere gli avevano sciolto le medicine dentro, Dio ne era certo. Medicine superflue, o che lo facevano dormire troppo. Ecco, era colpa loro se aveva gridato nel sonno, sissignore! Specialmente il sudamericano, che sorrideva sempre con un’espressione che più falsa non si poteva. Non gli piaceva per niente: “per ni-en-te!”, compitò soddisfatto spingendo la lingua contro il palato a ogni sillaba, facendo schioccare la protesi. Poi tornò a rimuginare, “Sonniferi, ci mettono i sonniferi e poi ci rovistano nei cassetti mentre dormiamo. La mia catenina è sparita così…”, poi afferrò la tazza, e dimenticatosi del ricettacolo di minacce che vi albergavano riprese a sorseggiare. La appoggiò nuovamente sul tavolo. Una chiazza oleosa si era formata sulla superficie del liquido. 

Poi dovette passargli un ricordo per la mente, perché un lampo ruvido gli attraversò lo sguardo opaco. Infilò ansimando, la mano nella tasca sdrucita nei pantaloni del pigiama “da ferroviere”,  per lo sforzo producendo due asole oscene nella zona inguinale. Per fortuna non importava a nessuno. Tanto meno a lui. Alla fine estrasse una voluminosa pallottola di carta stagnola; prese a cercarne faticosamente l’estremità, un lembo appiattito, strizzando gli occhi e spingendo fuori la punta della lingua. Estenuato fu lì lì per abbandonare la ricerca più volte; infine, quando l’ebbe ritrovato con un polpastrello, lo svolse lentamente. L’operazione durò diversi minuti, a causa delle mani e della vista barcollanti. Quando delicatamente, con soddisfazione concluse l’operazione, si fece circospetto. Si ricordò degli occhiali, che gli pendevano inerti per una cordicella al collo, imprecando per il colpevole ritardo con cui se n’era ricordato. L’infermiera si era allontanata, dietro alla scrivania, dove teneva gli occhi serrati su un libro traboccante di sentimenti impossibili; gli altri guardavano la TV. Il vecchio che faceva il solitario, stremato, si era infine assopito. Respirava in modo scomposto anche nel sonno. Dio allora estrasse una pietra azzurra levigata, con delle striature blu e verdi. La ghermì per qualche secondo con la mano sinistra e poi tenendola sul palmo la portò vicino alla bocca e vi soffiò sopra. La pietra si animò di una luce vivissima, divenne iridescente eppure fredda per alcuni interminabili istanti. Il sasso mandò un bagliore che gli accese gli occhi. E ricordò: “Bang…”, ripeté questa volta con un filo di voce. Con il volto illuminato abbozzò un sorriso. L’infermiera però stava accorgendosi di qualcosa. Allora Dio frettolosamente si nascose la pietra in grembo, ove celandola da occhi indiscreti la riavvolse nella carta stagnola. Ripose l’involucro infine nella tasca della vestaglia marrone. Infine compiaciuto reclinò la testa all’indietro e riprese a dormire. Sorrideva.

Un uomo invisibile

Non che non ci vedesse tanto poco, o che il suo vederci poco fosse talmente esplicito da fargli assegnare etichette e soprannomi da parte di quel tipo di studenti – una significativa e chiassosa minoranza, ma pur sempre una minoranza – che preferisce imputare i propri insuccessi scolastici alle difformità degli insegnanti piuttosto che alla mancanza di studio; “Hubble”, o “Quattrocchi”, oppure “Monte Palomar” lo avrebbero potuto appellare, mentre invece avevano avuto questa clemenza. 

E questo era di per sé strano, perché nella sua scuola c’era questa curiosa tradizione di affibbiare un soprannome a tutti quelli che vi lavoravano. Non c’era un motivo preciso, né qualcuno si ricordava il perché la cosa avesse preso piede. Ma non c’era insegnante, bidello o segretaria cui non ne fosse stato affibbiato uno. Persino i supplenti che rimanevano poche settimane non sfuggivano all’usanza locale. Tutti, ma proprio tutti, con l’eccezione del professor Correnti, che pure vi insegnava da tre lustri.

Si trattava per lo più di soprannomi bonari, che tendevano a valorizzare una peculiarità dell’aspetto fisico, le attitudini oppure la provenienza, mai però, mai, con intento canzonatorio. Magari si andavano a toccare anche aspetti caricaturali, sempre con l’intento di rappresentare la persona come curiosa e speciale, piuttosto che marcarne una mancanza fisica, o una pesantezza caratteriale. 

Per fare qualche esempio, il professor Anselmo Lucci, romano e tifoso sfegatato della Lazio, dopo appena una settimana era stato ribattezzato Aquila, mentre Vanessa Tedaldi, che aveva vissuto per molti anni in Argentina, era diventata la Pampera. A Sergio Donati, l’allampanato insegnante di religione, affetto da una forma precoce ed aggressiva di alopecia, gli era stato affibbiato un cordiale Kojak, oppure Amanda Dolenti, la giunonica DSGA, che era stata ribattezzata Milly, perché ricordava la gioviale casalinga, protagonista di un telefilm degli anni ’70.

Alcuni soprannomi erano più azzeccati di altri, ma ci si sbaglierebbe a pensare che la relativa assegnazione fosse improvvisazione o, peggio, approssimazione. Perché ci si teneva davvero. Una tradizione cominciata per caso, eppure nel corso degli anni aveva assunto una dimensione distintiva rispetto alle altre scuole, qualcosa di cui anche in quartiere, al supermercato, o in ufficio quando si parlava dei figli, o la sera al corso di Pilates, non si poteva non fare cenno. Gli insegnanti in particolare, con quei soprannomi sembravano discendere da un piedistallo e, con il ricorso a una dose di buona autoironia, si rendevano più simpatici, accessibili e disponibili. Anche le tormentate sessioni di consigli di classe aperti, quelle dove i docenti si siedono tutti da un lato della classe e i genitori dall’altra, a designare mondi che più distanti non si può, a quella maniera si coloravano di complicità e anche un po’ di buffoneria, così il tempo correva via più veloce, e i dialoghi ne guadagnavano in spigliatezza e cordialità.

Eppure, come s’è detto, Leonardo Correnti continuava a rappresentare una, unica e poco vistosa, eccezione. Ci si sbaglierebbe a pensare che non volesse, che fosse refrattario, o che tenesse a mantenere le distanze. Niente di tutto ciò. Non avrebbe avuto nulla in contrario, né tuttavia ambiva a portarne uno. Non ci faceva caso, così come gli altri non facevano caso a lui. La ragione per cui Correnti  era privo di un soprannome era molto semplice: egli navigava su rotte talmente nascoste, che i radar della comunità scolastica neanche lo intercettavano.

C’era, ma come se non ci fosse. 

Camminava per i corridoi, si sedeva a scrivere qualcosa in sala professori, piluccava una merendina dal distributore automatico – solo in momenti sideralmente distanti dalla ressa dell’intervallo – oppure si perdeva dietro alle costole dei libri, negli scaffali della biblioteca, ma senza che nessuno badasse a lui. Si potrebbe dire che Leonardo Correnti fosse un uomo trasparente, o che sfuggisse come una saponetta alle dinamiche della vita scolastica. E la cosa non gli creava, almeno in apparenza, alcun tipo di problema.

Nessuno si accorgeva di lui, così come lui con la suo vista carente, faticava ad accorgersi di tutti gli altri. 

Persino la sua miopia non era, per dir così, convenzionale. Certo gli occhiali li portava, di quelli dalla montatura di finta tartaruga, corvini e ampli, stagliati sulla sua carnagione pallida, con le lenti spesse, e che in effetti deformavano i bulbi oculari, facendoli più grandi e sporgenti di quanto non fossero. Ma non era quello. Ci vedeva effettivamente male, ma più che la miopia, o i perimetri delle figure sfalsati dell’astigmatismo, era affetto da un male – e quando diciamo male, lo intendiamo solo per la quantità di cose che poteva fare con, potremmo dire, una minore efficacia – assai meno convenzionale: sembrava che le immagini, capovolte sul cristallino e di lì mandate dal nervo ottico fino al lobo temporale, arrivassero con un consistente ritardo rispetto alla capacità percettiva delle persone intorno a lui. Più che “orbo” poteva sembrare stupido, e non lo era affatto (e nessuno che lo conoscesse men che superficialmente lo avrebbe mai pensato). Più che le diottrie sembrava mancargli costantemente il tempo. Il tempo di elaborare le immagini, quello di classificarle, quello di farne qualcosa prima che svanissero.

Un processo similare accadeva al suo udito. Tirando le somme si sarebbe potuto dire che fosse “mezzo sordo”, ma  nuovamente ci si sarebbe allontanati dal bersaglio, perché i suoni giungevano ai suoi padiglioni auricolari in un modo differenziato, a seconda della frequenza, più che della intensità o la distanza. Per cui poteva accadere che fraintendesse le parole della persona che gli parlava a meno d’un metro, e che altresì inchiodasse il responsabile di un bisbiglio pronunciato sommessamente a una decina di metri, nella confusione più totale. Gli effetti – per esempio in classe – di quella difformità sensoriale potevano essere comici, almeno fin che non venivano digeriti dalla opulenta tirannia della routine che finisce per livellare in basso ovunque le eccentricità di ogni comportamento umano.

Il tatto e il gusto, invece, erano normali, per quel che può valere questa parola. Sopravvalutata il più delle volte, eccetto che non vi si voglia indicare una forma di adeguamento, anche forzoso, alla collettività. Ma se ciò si limita ad avere un significato circoscritto quanto alle virtù sociali, poco poteva incidere se riferita alla dotazione sensoriale con cui affrontava la quotidianità e le sue battaglie. Cosicché il suo tatto dapprima, e il gusto poi, a furia del sottoutilizzo si atrofizzarono, allineandosi agli altri sensi, e perse col tempo il gusto di accarezzare una giacca di velluto, o quello di ordinare un piatto sofisticato al ristorante. Non ne traeva il giovamento ragionevolmente atteso.

Con l’olfatto invece aveva un rapporto drasticamente diverso. La capacità di percepire profumi e odori è, tra i cinque, il senso più primitivo, meno conformistico e di conseguenza, meno socialmente rilevante; il che può rappresentare uno svantaggio, o un orpello insignificante, col metro con cui si misurano, per esempio, le carriere di successo, mentre aveva assunto una grande portanza nel sua interiorità, come vi avesse reperito una forma di compensazione, nascosta e flebile, ma tenace al contempo. Quando gli capitava di entrare in un grande magazzino, era capace di passare ore – solo che si sentisse sufficientemente invisibile, che non ci fosse nessuno nei paraggi, ma anche che non si accorgesse di una telecamera di sorveglianza troppo insistente – a sprigionare effluvi di profumo sui tester di carta, sul palmo delle mani o sui polsini della camicia, elevandosi in una separazione mistica per interminabili minuti. Indifferentemente quelli maschili quanto quelli femminili. Aveva negli anni creato una tassonomia complessa e articolata della maggior parte delle fragranze reperibili in commercio, aggiungendo mano a mano quelle che lo stilista francese o l’azienda di indumenti sportivi lanciava, di anno in anno. E gli archivi erano tutti nella sua memoria. Come si diceva, a interessargli non era lo status sociale, o la performazione della sua personalità, che diventasse di successo, o più seducente nei confronti dell’universo femminile, oppure come strumento di potere. Tutto il contrario, anzi. Era sedotto dai profumi, travolto, annientato dagli aromi i quali avevano il potere di strapparlo al presente, così difficilmente arrancato, e proiettarlo in un adesso separato, selvatico e inesplorato. Ciò che otteneva dall’apertura di un flaconcino era più simile a ciò che per chiunque altro avrebbe richiesto un biglietto aereo, uno spostamento lungo e faticoso,

Ancora occorre una precisazione, perché non si trattava di fuggire dal presente, ma una sua trasfigurazione, tanto che nel luogo dove si recava, non vi giungeva attraverso l’immaginazione, ma per una strada secondaria del senso. Dopo avere spostato, e usato con circospezione, decine di boccette, non le comprava mai. Non per pitoccheria, tuttavia; semmai il mancato acquisto era per tutelare l’integrità, così come avrebbe trovato osceno (anche peggio di osceno) ricordare un luogo dove si è stati con un magnete sul frigorifero, o un adesivo sulla valigia. Le poche volte che dovette tradurre in un acquisto uno di quei momenti, a causa dello sguardo seccato di una commessa, poco propensa ai voli pindarici della percezione e molto più prosaicamente rivolta alle boccette che – per quanto lui ne facesse un uso assennato – avrebbe dovuto riporre in ordine, prendeva uno dei profumi, e lo faceva incartare in una confezione regalo. La quale finiva ineluttabilmente sul pavimento di legno chiaro del guardaroba. Nessuno l’avrebbe scartata. Non c’era chi avrebbe ricevuto il dono.

Quarantanove anni, divorziato, Leonardo Correnti, aveva una vita che assomigliava fin troppo ai resoconti che i suoi occhi e le orecchie gli consegnavano. Quando, puntuale come un impiegato svizzero spalancava la porta di una classe, i suoi studenti lo aspettavano, seduti sui banchi, a parlare di cose a distanza siderale dal mondo della scuola. E non avevano particolarmente fretta di sedersi dietro ai banchi. Non si sentivano minacciati, e lui non faceva nulla per sembrare minaccioso. Non serviva, oltre che non sarebbe stato credibile comunque. La puntualità, così come un rigore esagerato in ogni tipo di consegna si fosse assunto, era l’unica deroga che si poteva individuare a un aspetto trasandato, ma si trattava più di una forma di compensazione che pignoleria. Come se ogni cosa, piombando nel suo universo percettivo con un consistente ritardo, lo facesse propendere ad agire in anticipo, così da ottenere un affannato pareggio.

Non aveva avuto figli, sebbene non si trattasse di una scelta, ma di una conseguenza del suo modo di vivere. 

La stessa Marcella – colei che in un afflato, vuoi di ingenuità, vuoi di quel tipo di generosità che si affievolisce nel corso degli anni e che spegne le speranze coltivate senza che riescano a mettere radici – aveva perso interesse per lui prima di prendere seriamente in considerazione l’ipotesi di averne uno. Non era stato un amante particolarmente focoso, e lo sapeva; ciò non perché gli difettassero pulsioni e passioni quanto, come forse si sarà immaginato, perché queste tendevano a manifestarsi in lui, e conseguentemente alla sua partner, con un ritardo che dava spazio a ogni tipo di ritrosia e raffreddamento, cosicché lo stesso principio del piacere gli s’era atrofizzato addosso. 

Perciò non aveva biasimato la povera Marcella, le aveva concesso il divorzio più rapido e indolore di cui si fosse avuta mai notizia e, successivamente, aveva smesso di cercarsi una compagna, poiché l’amore sarà pure sinonimo di sacrificio, ma era altresì certo che donne vocate al martirio non ne avrebbe trovate più. Né si riteneva in diritto di ingannarle.

Del quadro che abbiamo tinteggiato emerge spontanea una parola, handicap, che non rende giustizia al professor Correnti. Certo il sostantivo “ritardo”, ancorché epurato fin all’eccesso dalla lingua italiana da tutte le circonlocuzioni che vi si aggrappano, quando applicato alle persone, è forse la peggiore delle disabilità, quasi a sovrapporsi in ciò cui si designa. Ma questa è solo una faccia della medaglia, potremmo anzi dire che si tratta della sua dimensione sociale. Vista nella prospettiva interiore, si presta a più di una sfaccettatura. 

Intanto era l’interiorità in quanto tale, e la gemella memoria, non diciamo a giovarsene poiché non è di un giovamento che parliamo, ma a risultarne arricchita. Tutta quella congerie, l’enorme patrimonio sensoriale, che compariva alla sua coscienza con il consistente ritardo di cui parliamo, vi arrivava in modo tale che le combinazioni così originate, vi permanessero per un tempo indefinito. Non vogliamo dire che Leonardo Correnti “ricordasse” le cose che alla fine vedeva, o non solo quantomeno; ma che il ritardo medesimo le ricombinasse in una serie di disposizioni, trasformando e collegando cose che lavorando a velocità normale, non avrebbe potuto. Come ombre cinesi che, al posto si svanire, lasciavano tuttavia una traccia flebile e duratura sulla parete. Quello dei profumi è un esempio perfetto: ciò che vi reperiva era molto diverso, più intenso e profondo, rispetto a quanto ciò che cercava chiunque altro; è così era anche per o suoi “sensi ritardati”: le percezioni, raggiunto così faticosamente il territorio dell’ipotalamo, vi si depositavano come una nevicata copiosa, leggera e soffice, persistente e tenace non solo quanto alla permanenza, ma soprattutto, alla capacità di trasformare gli oggetti dal suo ingresso in poi. Perché una volta dentro questi gli appartenevano più di quanto non si possa dire per molte altre persone.

Analogamente a un uomo che rimiri un panorama sotterrato dal neve, dove gli altri vedevano alberi e case, Leonardo Correnti s’era abituato alla distorsione temporale dei sensi, e a misurarsi con qualcosa di inaccessibile per coloro con cui interagiva. E se il contrappasso era la solitudine, la solitudine aveva smesso di pesargli da tanto tempo. Non tuttavia un solipsismo autistico, come sarebbe facile e immaginarsi; egli si sorprendeva della maggior parte delle cose, persino quelle destinate alla ripetizione quotidiana, ma il loro ingresso nella coscienza veniva attutito da un presentimento dovuto proprio alla divaricazione percettiva: quella reale e quella differita, appunto. Come un avventore al ristorante che ordina le stesse pietanze a due tavoli differenti, cosicché sbocconcellando i piatti giunti al primo, sa cosa aspettarsi quando il cameriere apparecchia il secondo.

Per esempio il professor Correnti sapeva perfettamente che sarebbe invecchiato, anche se non era in grado di dire quando ciò sarebbe accaduto. Bella forza, si potrebbe replicare, tutti sanno che invecchieranno. Ma non è del tutto vero, o certo non è vero nel senso in cui lo percepiva lui. Della sua età si è già detto, ma curiosamente non dimostrava i suoi anni. Come gli stimoli del mondo circostante lo raggiungevano dopo una pausa consistente, così era stato per il tempo che, come un parente lontano, lo veniva a trovare di rado più che potesse. Non invecchiava oppure, come sarebbe più corretto dire, invecchiava più lentamente. La sua pelle era liscia e glabra, i lineamenti tenui come quelli di un ragazzino, i capelli d’un nero corvino, senza che nebbie e lanugini avessero provato di avvicinarsi, e le uniche rughe presenti sul suo volto erano o quelle di espressione – come quella di condivisione che assumeva durante ogni dialogo ravvicinato, dovuta alla mancata comprensione di buona parte dei contenuti e della mancanza del coraggio necessario per esporre il problema, finendo per pronunciare le fossette e gli zigomi del suo volto  – oppure l’equatore che marcava due aree perfettamente distinte sulla sua fronte, dovuto alla sua natura, all’attitudine di elaborare e rimuginare ogni cosa; come una “vacca del pensiero”, egli attingeva alla greppia dei sensi col ritardo che abbiamo qui descritto, ruminando i contenuti per mesi e mesi, a prescindere dal valore o le effettive conseguenze. E la ruga sulla fronte era il confine visibile che la sentinella aveva di continuo attraversato, indecisa su quale dei due lati presidiare.

Anche gli spessi occhiali, di cui s’è detto, non potevano essere considerati un segno di vecchiaia, perché li portava così dalla prima media. Persino l’astigmatismo e la miopia non gli avevano messo fretta. Eppure persino per lui la sabbia nella clessidra continuava a incedere nel suo processo irreversibile. E ne aveva una coscienza lucidissima. Ma una cosa è il sapere, privo di ogni connotazione emotiva, e un’altra sarebbe stata quando se ne fosse capacitato veramente, quando avrebbe “sentito” interiormente che la quota più importante della sua esistenza fosse oramai alle spalle, e che una serie consistente di traguardi non sarebbero più stati alla sua portata, sarebbe accaduto improvvisamente. Ecco quindi il miglior esempio, finalmente, di cosa consistesse il suo ritardo percettivo. Egli conosceva in anticipo qualcosa di cui avrebbe avuto consapevolezza solamente molto, molto tempo dopo. Il “piatto della vecchiaia” potremmo dire non era mai mancato a uno dei suoi due tavoli, così che quando sarebbe arrivato al secondo, avrebbe saputo esattamente di cosa si trattava.

Non sapeva quando, ma era ragionevolmente consapevole di come, un giorno, gli sarebbe successo. Forse sarebbe accaduto sul tram, uno di quei vermi arancioni che bucano la polpa della città, oppure nel corridoio davanti la sala professori, oppure ancora nel tragitto pedonale consueto, tra il cubicolo ove abitava e il mercato rionale dove si recava con la sportina ripiegata in tasca e ne tornava con lo stretto indispensabile – era inevitabile che avvenisse in un contesto famigliare, perché solo le difese abbassate, solo un luogo dove la soglia di attenzione fosse stata inferiore avrebbe fatto scattare la trappola -, avrebbe scrutato uno sconosciuto per un po’, senza saperne la ragione, con vorace curiosità. Sarebbe stato un uomo – difficile una donna – approssimativamente della sua età. Ne avrebbe soppesato particolari, dettagli della pettinatura, i tendini del collo pronunciati, o peggio ancora non gli sarebbe sfuggita la folta peluria delle narici. L’avrebbe osservato sollevare gli occhiali, e scrutare con puntiglio le voci di uno scontrino. Avrebbe guardato la polo slavata, il colletto floscio per una stiratura approssimativa, la pelle escoriata del petto. Avrebbe annotato i pantaloni abbondanti, dal cavallo basso, con le cuciture ben visibili, le pence o i passanti lisi, e probabilmente si sarebbe soffermato sui mocassini consunti, indossati quasi certamente senza calzino.  O, peggio, con uno di quei calzini invisibili. L’avrebbe detestato, sicuro. Di più, anzi; l’avrebbe odiato di una visceralità onnipotente, con ogni fibra del suo essere. Poi sarebbe accaduto un passaggio successivo, dovuto al non capacitarsi di quel risentimento. E poi sarebbe accaduto l’inevitabile. A un tratto uno di quei dettagli, meglio anzi, un solo dettaglio contenuto come scatola cinese dentro quei particolari, l’avrebbe folgorato, perché vi avrebbe riconosciuto se stesso. Quell’uomo disarcionato, che aveva oscenamente valicato la soglia tra la maturità e la vecchiaia, altri non era che lui. Ovviamente sarebbe stato un momento tragico (nemmeno la doppia temporalità l’avrebbe tutelato da questo), perché avrebbe strangolato, definitivamente, ogni residua speranza di fare altro dal poco che aveva fatto – per quanto poco pensasse sinceramente di poter fare, e per quanto drammaticamente poco sapesse di avere fatto -, di poter essere ciò che non era mai stato, di accedere a un territorio che, per qualche misura interiore, non aveva voluto o potuto.  Era tardi sino per il suo ritardo. Avrebbe anch’egli in quel preciso istante varcato irreversibilmente la soglia tra l’orizzonte di possibilità indefinite e un fronte di recriminazioni e rimpianti per ciò che non era mai potuto essere. Non si trattava della certezza della morte – la cui ingombrante presenza da quel momento sarebbe stata attestata come uno scoglio emerso, squallido e scontroso, da un oceano limpido e appiattito fino a un istante prima -; non aveva paura della morte (se non entro una soglia che potremmo definire fisiologica), e non l’avrebbe temuta dopo; lo avrebbe angosciato – e di conseguenza lo turbava adesso – la percezione del gorgo di sabbia che risucchia ogni cosa, quando la metà superiore della clessidra comincia a svuotarsi. La misura del reale, da quell’istante, sarebbe stata una volta per tutte dettata dalle cose che non aveva potuto consentirsi. E, si badi bene, non c’era nulla che potesse fare a riguardo. Non poteva “osare di più adesso per rimpiangere meno dopo”. Perché il punto più drammatico non constava nel numero di occasioni da spostare da un canestro all’altro; neanche dal numero di covoni trascinati dall’aia al fienile asciutto prima delle piogge, ma nel movimento soffocante cui il tempo, attorcigliandosi su se stesso, l’avrebbe costretto a sottostare. Nella lucida anticipazione che Leonardo Correnti aveva del momento in cui si sarebbe scoperto “anziano”, c’era il senso preciso che in quel momento Kairos – il tempo carico di opportunità – sarebbe piombato davanti al suo orizzonte e, nell’atto di abbandonarlo definitivamente, l’avrebbe congelato in una diapositiva unica, sottraendogli la forza propulsiva – vera o apparente, non importa – che l’aveva condotto sino a lì, e che non l’avrebbe più condotto da nessuna parte. Da quel momento nessuno avrebbe più potuto spacchettare i doni sotto l’albero, non sarebbe più accaduto nulla, e il contenuto dell’involucro temporale sarebbe divenuto talmente rigido che anche il contenitore, per sua natura dinamico, avrebbe presto cominciato a lacerarsi. Non si trattava, lo rimarchiamo, che in un dato momento si giungesse davanti a un baratro, ma che il movimento normale del tempo, giungesse allo stallo definitivo. Quello era il baratro.

Il che ci porta a due conclusioni, una palese, valida come una vera e propria “legge del tempo” e l’altra meno ovvia – cui però un lettore attento non sarà sfuggita -, che per quanto ne sappiamo potrebbe valere esclusivamente per il professor Leonardo Correnti. In primo luogo si può dedurre che la dimensione “cairotica” dello scorrere degli anni, altro non è che la coscienza medesima; ciò ci porta a un corollario quasi intuitivo, ovvero che il tempo risulterà tanto più semplice da vivere, quanto alla sua dimensione orizzontale, quanto meno coscienza se ne arriverà ad avere. Questo comporta tuttavia un gigantesco paradosso, ovvero che la coscienza, in quanto strumento unico con cui testare e attribuire significato al tempo, ne rappresenta anche un capillare molto fragile, perché laddove l’uomo afferma un significato al tempo, e alla realtà tutta, si espone enormemente al rischio della sua vanificazione.

Guai all’uomo che avesse il senso effimero dello scorrimento del tempo davanti a sé, perché si troverebbe costantemente nella condizione che si preannunciava al professor Correnti. E tuttavia – ecco quindi il secondo  scontato passaggio – quell’uomo esisteva, e aveva un nome e un cognome: Leonardo Correnti, appunto. Infatti il destino non solo lo attendeva per un agguato a un crocevia del futuro, ma egli ne era perfettamente consapevole già nel presente. 

Così Kairos si comportava, almeno con lui, come uno spiritello fastidioso, aggiungendo alle due una terza dimensione: l’attesa. La certezza anticipata della ineluttabilità del tempo, non gli toglieva la possibilità di una dimensione routinaria. Viveva cioè senza il terrore della spada di Damocle galleggiante sul suo capo; anzi, una quota di gesti ordinari e ripetitivi erano per lui ancora più necessari che per chiunque altro. Non perché gli consentissero di obnubilare il tragico rendez-vous (quanto a questo non aveva alcuna speranza), ma per stabilire una “vivibilità del reale” senza cui sarebbe stato buio pesto anche a mezzogiorno. Era uomo vivo, sebbene in modo poco appariscente, e lontano dai radar dei suoi simili. I suoi piccoli gesti – la scuola, il mercato rionale, i mezzi pubblici saturi di carne sui quali saliva – erano l’attestazione di un esistere resiliente, come una cultura di batteri, anni dopo, consente alla vita di vincere nuovamente l’ardua battaglia con la morte, dove un vulcano ha vomitato le sue viscere. Piccole cose, ostinate, ma imprescindibili.

La terza dimensione del tempo si era in lui sviluppata, per dir così, come una introflessione e quasi – l’uso della parola è da intendersi come eccezione normativa – un capovolgimento; come un alberello, apparentemente gracile, che sviluppa una parte delle radici alla luce del sole e una parte della chioma sepolta nell’argilla. Uno scherzo della natura, si potrebbe pensare, uno sgorbio; alcuni insegnanti del suo liceo dovevano esserne convinti, e certo lui non faceva nulla per dissuaderli, e a valicare i fossati che circondavano la sua inquieta ed esitante figura, limitandosi a un fugace saluto davanti la macchinetta del caffè, oppure lo scambio tiepido di documenti durante un consiglio di programmazione. 

Beninteso che essi non fossero tenuti a vedere oltre – chi mai potrà essere costretto a vedere un’oncia oltre il visibile di qualsiasi altra persona? -, eppure ciò che, così, si perdevano, era molto. L’alberello rovesciato  che abbiamo scelto come esempio, non è un caso, perché le radici rivolte al cielo, scagionate dalla fotosintesi, servivano ad acquisire una misura profonda dello spazio circostante; e ancor più il fogliame compattato sottoterra che consentiva ai suoi sensi, così affievoliti quanto alla capacità di carpire il mondo circostante, si torcevano tutti verso l’interno quando si trattava di stabilire colori e significato del suo, a questo punto ricchissimo, universo interiore. Non riuscendo a protendersi verso il fuori, aveva trovato un sistema singolare per trascinarne una parte al proprio interno. Poteva godere in modo radicale di cose che il resto del mondo, avrebbe giudicato irrilevanti. Dei voli pindarici nel reparto profumi abbiamo detto, ma si possono fare altri esempi, concernenti l’olfatto come altri invece a esso slegati. Un nuovo ammorbidente, saggiamente dosato nel bucato, poteva infondergli un’energia insospettabile per una settimana; una melodia – intercettata casualmente sui titoli di coda d’un film melenso – turbarlo fino al pianto profondo. Le domeniche mattina, specie quelle di autunno, amava alzarsi non troppo tardi, e rimanere a letto ancora un po’. Apriva i vetri della sua camera, ma lasciava chiusi gli scuri, dai quali trapelava tuttavia l’opalescenza del giorno; stava lì, sdraiato, con gli occhi ben aperti, a fissare il soffitto. Folate di aria fresca si affacciavano nella stanza, e lui le accoglieva sulla pelle. E poi ascoltava, i rumori del quartiere che, sonnacchioso, prendeva progressivamente vita. I bambini recalcitranti trascinati a messa, le donne anziane che, sebbene non distinguesse le parole, gareggiavano sugli acciacchi, il vento e la luce – sì, anche la luce può essere ascoltata – e poi l’uomo vecchio, che non vide mai (o almeno non lo riconobbe), la cui voce, gutturale ma svilita, gli era tuttavia familiare: “Pepe, Pepe, vieni qui.” S’era fatto l’idea che fosse un volpino nero, tarchiato, con le zampe rigide e un occhio sbilenco. Poi venivano i rintocchi della campana, lenti e rassicuranti, promemoria delle cose del cielo. E si sentiva felice; immotivatamente si potrebbe pensare, e molti l’avrebbero pensato se solo un po’ di quella felicità fosse trapelata nelle sue espressioni, nelle parole o nei gesti (una ragione in più per tenere tutto dentro); sciocchezze, cose piccole, ecco che avrebbero pensato. Ma la verità è che talune cose sono grandi non perché vengono amplificate dalle anime separate, ma nonostante tutte le altre le ignorino; dimensioni la cui effettiva portata, per un preconcetto, si impedisce di godere. Non lui; non Leonardo Correnti, il quale si riteneva piuttosto un privilegiato, un monello che sotto a una staccionata trova un pertugio invisibile, l’accesso a un mondo segreto, e che segreto doveva rimanere. Un segreto che aumentava il proprio valore ogni giorno che riusciva inviolato.

Amava la pioggia, sebbene un rovo di protocolli e convenzioni, non gli consentisse di goderne quanto avrebbe voluto – avrebbe fatto specie vedere un uomo di mezza età, ben vestito, che cammina senza un ombrello sotto a un acquazzone, senza affannarsi per guadagnare una pensilina, o il riparo di un cornicione. E amava ancor più il vento. Purtroppo a Milano è un evento straordinario, perciò si doveva accontentare dei pomeriggi, facilmente primaverili, in cui il cielo viene sgomberato, come una cantina dimenticata, e al suo posto compare una lastra di pastello blu, liscia e levigata. Adorava quelle poche giornate poteva muoversi per la città, vedere le insegne dei negozi sbatacchiate, le tende delle finestre dimenticate oscillare, come i paramenti di un confessionale mentre accolgono un peccatore.

In autunno invece amava la nebbia. Quella non mancava mai, sebbene nel corso degli anni, per poterne godere come aveva in mente, doveva uscire dal territorio comunale – troppo traffico, luci, insegne luminose – e spostarsi in alcune propaggini dell’hinterland. Quelle arano le giornate perfette per i miopi. Aveva visto un documentario, tempo prima, sulla resilienza. Vi si diceva che persone “normali”, che non avessero particolari doti, anzi, addirittura i depressi gravi, capitava che nel momento di circostanze eccezionali, trovavano non si sa come, risorse sorprendenti, inconcepibili quasi. 

Inevitabile che si immedesimasse. Ebbene, in quelle giornate si sentiva bene, perché la nebbia era, per i miopi, come la resilienza durante le catastrofi; diminuiva il gap. All’opacità delle cose lui c’era abituato, era il suo pane quotidiano, perciò quando il cielo calava le cataratte, poteva giocare in casa. Questo non l’aveva sentito nel documentario. Era roba sua. Non l’avrebbe sfoderata in una conversazione, ma averci pensato bastava a renderlo orgoglioso.

Aveva scovato un paesino, tra Milano e Crema – per raggiungerlo doveva percorrere la Paullese per una ventina di chilometri, andando poi a conficcarsi tra i rettangoli coltivati -, non particolarmente bello ma caratteristico e, cosa decisiva, deserto praticamente ogni momento dell’anno, fatta la necessaria eccezione dei braccianti e agricoltori che l’attraversavano di continuo. Ai bordi del paese c’era una specie di ristorante, lungo e stirato sulla esile striscia d’asfalto. D’estate era un continuo corteo di trattori e altri pesanti macchinari; gli piaceva fermarsi all’esterno, e trovarvi oltre agli immancabili e sparuti anziani, ai quattro lati di una tovaglia lurida a scambiare briscole e bestemmie a ogni ora del pomeriggio, mentre sull’imbrunire arrivavano gli uomini più giovani, di ritorno dai campi, coi capelli umidi della doccia e la pelle del volto arrossata, dopo le ore passate sulla mietitrebbia. Appena dall’altra parte della strada

Seduto, beveva un tè freddo – che la signora dietro il bancone doveva avere preparato la sera prima – versato da un bottiglione da vino. Da principio la donna lo aveva guardato con diffidenza, e questo aveva gli provocato un simmetrico disagio. Ma alla fine s’era abituata. I tavoli fuori dal locale erano, persino per frequentatori sporadici, i meno ambiti. Perché il sole vi picchiava tutto il giorno, e non appena s’abbassava, con le mattonelle ancora incandescenti, si potevano vedere dai campi accorrere orde di moscerini, piombini densi di un fucile da caccia, per l’adunanza del fastidio. Ed egli pativa entrambe le cose, tuttavia essere lì, con il quotidiano sportivo sbiadito – fingeva soltanto di leggerlo -, lasciato da un altro avventore, lo colmava di una insospettabile gioia. La strada, i trattori sbuffanti gasolio incombusto, la calura, il profumo acre delle foglie di sorgo, oppure quello rancido dei pomodori caduti da un bancale e spiaccicati dalle ruote di decine di auto, tutto questo lo faceva sentire partecipe di un Tutto che si srotolava accanto a lui, che lo raccoglieva con le sue spire viscose trascinandolo in una vibrazione successiva di esistere. Cristo quanto era fortunato. Quante cose erano non solo accessibili a un uomo dai sensi feriti come lui, ma c’erano perché gli fosse consentita una vitalità, che altrimenti non avrebbe potuto. Una vita che gli esplodeva nel cuore, e di cui difficilmente avrebbe saputo raccontare a qualcuno. Ma non importava poiché raccontare non era il suo mestiere. Perciò la segretezza di quel piacere, così inconsueto e distante dagli accessi della moltitudine rimaneva preservata, non dall’egoismo – non era egoista – ma dalla scarsa credibilità dell’unico testimone.

Un uomo su un barile

Naufragio, William Turner

La vita, in fondo tutta quanta, è divaricata tra alcune scelte, consapevoli o meno, che fanno del nostro mondo un luogo molto grande oppure molto piccolo. E’ questa la dialettica eterna tra sicurezza e libertà. Tra l’una o l’altra cosa. Talvolta nessuna delle due, ma mai entrambe.

Il mondo, per come ce lo si rappresenta, o è un luogo estremamente confortante, o un posto dove l’inquietante è sempre dietro l’angolo. Va da sé che i più scelgono la sicurezza. Poiché per andare a fondo delle cose talvolta bisogna affondare, mettere la testa sotto, e mancare nel respiro. Una cosa assai spaventevole, la sola quale consente di vedere tuttavia le cose per quello che sono e non per ciò che piace raccontarsi.

A staccarsi dalle certezze, ed entrare nel “tempo verticale”, ovvero sacro, si fa fatica, ed è percorso che si fa sempre in solitaria. Normalmente abbandonando – spesso previo naufragio – le galère dove si remava tutti insieme sì, ma incatenati, per affidare le proprie sorti a natanti di più modeste dimensioni. E solo allora si scopre quanto possa essere sconfinato, maestoso e agghiacciante, l’Oceano. 

Io per conto mio, sono un uomo su un barile.

La Consolina

I cani e i santi

Wof, Wof. Qualche minuto di silenzio cui seguiva un’altra salva, wof, wof! Il vecchio Fedro aspettava che qualcuno passasse davanti al cancello tutto il giorno, con la cocciutaggine che gli uomini dovrebbero invidiare ai cani. Non era cattivo e manco ci assomigliava.  Ma abbaiare era come un dovere, e non si sarebbe sottratto.

Il tempo tuttavia si srotolava come un tappeto cencioso, e trascorrevano a quel modo ore senza che passasse anima viva, così il macilento spinone finiva per prendersela con tutte le cose che si scuotevano distanti – i panni stesi della vedova Martucci, o le imposte lucide del Floriano -. Ma, inevitabilmente, alla fine prendeva ad accontentarsi, con minor convinzione, di quelle che si muovevano solo nella sua capoccia; un’ombra, un riflesso, un alito di vento scampato ai viottoli. A un tratto, però, drizzò le orecchie e chiuse la bocca, ché ci sentiva meglio senza sbavare, e squadrò cogli occhi stretti il muretto del municipio, indeciso se abbaiare in anticipo e far prendere uno spavento al forestiero, oppure aspettare per vedere se arrivava qualcuno di conosciuto. 

Pochi secondi e riconobbe uno scalpicciare rapido e asimmetrico; il cagnaccio s’avvicinò alla rete, la testa docile e la coda bassa che s’agitava come un metronomo scassato per ottenere qualche carezza o un tozzo di pane, ma si sarebbe accontentato di una parola di zucchero. Era di poche pretese il buon Fedro. Tuttavia non era la giornata giusta e, quando la sagoma femminile tozza ed energica gli sfilò davanti senza rallentare, deluso si arrese, tornando a sdraiarsi sul fianco, annusando appena una foglia secca che dall’ultima volta, chissà, poteva anche essere diventata una galletta. Ma niente. Così tornò ad assopirsi nel sonno troppo sognato dei cani.

La donna non l’aveva degnato di uno sguardo. Di solito almeno una parola riusciva a lasciarla giù, ma quel giorno passò come una freccia, che quasi s’era scordata la gamba più corta. Era corpulenta e tarchiata tuttavia agile, con le braccia flaccide che s’agitavano ai fianchi, come bielle di una locomotiva, tipo quella buffa disegnata nell’atrio della scuola materna. Che poi di bambini alla scuola non se ne vedevano da secoli, e il trenino buffo disegnato s’era immalinconito, sbiadendo fino a scomparire o quasi. Da quanto tempo non c’era stato più un monello? Neanche le veniva in mente. E mica era giovane, oramai era vicina a contare settanta primavere, sebbene dimostrasse ancora una vitalità sproporzionata. Non fosse stato per la zoppia avrebbe ruzzolato su e giù per i viottoli del paese come un pischello che gioca a Tela. E anche col piede offeso, finiva per farlo molto più spesso della maggior parte dei compaesani.

No, che non c’aveva tempo per Fedro. Una giornata così… E dire che quando era scesa aveva in mente di chiedere a Gustavo il salumaio, un osso di porco – e lo sapeva che nel retro teneva quelli più succosi per il Labrador del Sindaco – ché lo vedeva sempre più smagrito. Avrebbe addirittura insistito, litigare quello no. Non litigava con nessuno, aveva un cuore buono. Ma aveva incontrato la Severina, vicino alla bottega con quella notizia – e che notizia! -, perciò aveva tirato su il rognone prenotato il giorno prima, e due carote per la cena, ché anche la spesa lunga doveva aspettare. 

Gli occhi, piccoli e scuri, brillavano di febbre curiosa mentre gli sbalzi del selciato si propagavano sulle guance come schiaffi sulla gelatina mentre svoltava per l’Asinera, che menava dal paese a casa. La Consolina non rallentò neanche per la pendenza, sebbene quando arrivò nel punto dove il sentiero si infossava, e doveva fare attenzione alle pietre grosse, dovette fermarsi per forza. Certo con un bastone avrebbe saggiato i passaggi in anticipo, guadagnando in tempo e velocità, ma non c’era verso di farglielo tenere; chi lo voleva un bastone? Era da vecchi, i vecchi vecchi cioè, e lei non ci si voleva sentire. Glielo aveva suggerito Cornelia, quella che teneva i polli e i conigli, e la stessa Severina. Persone gentili, che si conoscevano da sempre, e che non si facevano beffe della sua camminata. Il sindaco che c’era prima, Tolomeo, aveva addirittura inventato una specie di lotteria per farle vincere, col trucco, il premio ch’era guarda caso un bastone per camminare, arrivato punto dalla valle. Ma lei niente! Aveva accettato perché rifiutare era da cafoni, e non era una maleducata, di litigare non c’aveva il cuore con nessuno, poi però l’aveva portato al fienile e nascosto sotto alle balle, casomai veniva la polizia dei regali a controllare che i vincitori non buttavano i premi. Di invecchiare lo sapeva bene, mica le dispiaceva; anche perché gli anni della gioventù non erano stati poi così diversi da quelli venuti dopo, ma andare in giro con la verga come le arpie di quando era bambina, proprio non poteva. Cattive nel profondo. Superate le grosse pietre, dosando agilità e prudenza, concluse l’ultimo rettilineo che l’avrebbe condotta nell’aia del cascinale. Come di consueto, quando superava il masso che sanciva la fine del sentiero, strillò con la sua voce acidula:

“Va là che sono io, la Consolina.”

Non ricevette risposta, nemmeno l’aspettava, mentre calpestava l’ultimo sterrato che portava all’uscio di casa. Scansò con un gesto ebbro di consuetudine le cinghie di plastica colorata, pendenti tra lo stipite e il pavimento, che facevano ombra e tenevano lontani i calabroni. Col freddo, quando d’insetti in giro se ne vedevano meno, le ritirava dietro il pomello, come fossero i capelli di una smorfiosa dietro l’orecchio. L’ansia di raccontare s’era un po’ placata, affiancata con l’idea dello stufato da preparare, e la preoccupazione che ci fosse del vino aperto – altrimenti doveva scendere in cantina, e non le piaceva, per l’umidità mica i gradini – ma non appena scalzò le scarpe aiutandosi coi pollici e contraendo le labbra con le smorfie di reumatismo, il ricordo della cosa più importante sbucò di nuovo come una marmotta dal suo pertugio.

“Uè, sapessi cosa mi hanno detto giù al negozio…”. Parlò sottovoce, con gli occhi bassi, sembrava un giuramento vendetta, come faceva quando temeva di perdere il filo. Quando si sentì sufficientemente sicura, si rammentò delle altre cose, cercò con gli alluci le pantofole, finite come sempre sotto la stufa spenta, e si liberò della spesa. Dalla borsa di corda sbucò un canovaccio di giornale, flaccido e gocciolante come il cuore che re Davide aveva strappato dal petto di Golia.

“Accidenti!”, bisbigliò mentre contemplava le gocce cupe che l’avevano accompagnata dall’ingresso, certe col segno della scarpa. Un lavoro in più, che tanto ne aveva già pochi, si commiserò soltanto un pochino. Compatirsi era distante dalla sua natura, non meno del bastone lasciato marcire sotto la paglia. Avrebbe potuto lagnarsi della strada che doveva fare fino a quattro, anche sei volte al giorno, che doveva pensare a tutto senza nessun aiuto. E non era più una ragazzina, eh no! Ma non le veniva. La verità era che non voleva nessuno a impicciarsi delle cose sue. Finché ce la faceva, ce la faceva, e poi un posto al Camposanto mica glielo avrebbero negato. Quanto a Santino, beh, non è che ci avesse mai pensato troppo. Dipendeva da lei come un neonato, e che la loro vicenda fosse legata da un doppio filo non era un mistero.

Emise un lungo sospiro – non per la fatica, da cui sembrava immune ma per la sporcizia -, poi gettò il rognone sul tavolo di resina. Abbandonò la borsa di corda sulla spalla della sedia più vicina; tra le maglie grosse si vedevano le carote, preservate chissà come dal sanguinamento.

Prima di cambiare stanza si concesse un piccolo vizio, trasse dallo scolatoio un bicchiere grande, le pareti zigrinate e il fondo spesso, che a guardarci dentro faceva un effetto; poi prese il fiasco incastrato tra la stufa e la parete, lo stappò e controllò che ve ne fosse abbastanza per la cena, poi si versò un dito di liquido nero come il sangue sul pavimento, e lo deglutì d’un sorso. Ma si paralizzò, col bicchiere laconicamente vuoto, pentita con un istante di ritardo, anche se tutto ciò che le venne fu di accompagnarne la focosa discesa con una mano sullo sterno. Gli occhi rotearono senza trovare l’asse giusto, poi dopo l’esitazione, riempì per metà nuovamente il bicchiere. Alla malora se mancava per la cena.

“Ti va un dito di vino?”, domandò con la voce che aveva perso l’acutezza e s’era fatta più melliflua, quasi dovesse venderlo al mercato, “Eh, ti va un goccio?”

Attraversò nella direzione opposta il corridoio da cui era appena venuta, attenta a non calpestare la sporcizia, ignorò l’ingresso e si inerpicò su una scala ripida, comparsa dal nulla. Aveva una tale confidenza coi pioli che lì superò senza dover coprire la sommità del bicchiere con la mano. La levata terminò su un mezzanino di legno cigolante, coperto alla bell’e meglio con un tappetino rosso, dove erano disegnate le greche e i ghirigori persiani – almeno così le aveva detto il Borghetto, quello del mercato – con delle lunghe frange bionde, oramai sbiadite dalle spazzolate e dagli anni. Le travi del pavimento protestarono blandamente, fino che non trovò una piccola porticina. Dovette incunearsi un poco. 

L’arredamento della stanza al piano era diverso da quella da basso, pieno di cose ovunque, come se solo lontana dall’ingresso aveva potuto infischiarsi di tutto e mettere le cose che amava di più. Una specie di segreto che, anche a causa della condizione del Santino, che non poteva vedere nessuno e che non poteva ricevere nessuno, avrebbe fatto meno fatica a preservare. La finestra era aperta, col ramo del ciliegio lì a un braccio, che durante le settimane della raccolta si poteva fare una scorpacciata soltanto sporgendosi. Adesso era pure meglio, perché al posto delle amarene profumate si potevano ascoltare le ciarle delle Peppole e i Lucherini, indifferenti ai curiosi, commentare le frizzanti giornate estive. Per tacere ci sarebbe stata la stagione fredda. A stare in silenzio, ma in silenzio per bene, si poteva vedere anche lo scoiattolo fare un balzo da un ramo all’altro, o arrotolarsi frenetico un seme tra le zampe, cogli occhi sbarrati e le zampe contratte, pronto a svanire al primo soffio. 

Consolina adorava la finestra, e quella stanza, ingombra di oggetti affastellati un po’ ovunque. Il sofà intarsiato di velluto rosso, con sopra i lavori a maglia, pronti da riprendere la sera, il tavolino alto di bambù sopra il quale non aveva ancora trovato il giusto abat-jour, la credenza di legno pesante e scuro, dove erano una decina di Capodimonte, poggiati ciascuno sul proprio centrino, che rappresentavano vecchi o bambini, come ci fosse nulla nel mezzo. Gli anziani potevano passeggiare con le mani nodose dietro la schiena, o dar da mangiare agli uccellini, i secondi compitavano su un quaderno, oppure finivano con le guance arrossate dietro la lavagna per una marachella. Il suo preferito era un bimbo coi pantaloni abbassati, intento a orinare sugli attrezzi del babbo – un martello e una sega – mentre veniva scoperto e si voltava con gli occhi sbarrati di paura. 

Sullo spigolo c’era la pendola a scandire i pomeriggi coi suoi tetri contraccolpi allo scoccare dell’ora, che s’annunciava con un cigolio lagnoso, come quando s’apre un cassetto chiuso da troppo tempo, e poi la scampanio afono, perché da quando s’era ammalato Santino la Consolina aveva pensato bene che non era così importante conteggiare lo scorrere del tempo con tutta quella pompa, e quindi l’aveva imbottito con uno strofinaccio. Di fronte al sofà c’era il tavolo rotondo, col tappeto verde e i fiori blu e gialli, che scendeva fin quasi a terra, così spesso che anche quando Santino l’aveva bruciato col sigaro – uno sbaglio per carità di Dio, cominciava a non stare bene in quei mesi, e ogni tanto gli cadevano di mano le chiavi, o la forchetta –, aveva stabilito di tenerla così, ché un rammendo non si poteva, e di buttarla proprio non se ne parlava. Fece piuttosto un centrotavola tutto nuovo con la maglia, più scuro e fitto degli altri, e ce lo mise sopra, compiacendosi del risultato sin troppo per restare sincera. Ma tanto lì sopra ci stava solo lei, e il suo Santino, perciò alla fine delle otto sedie massicce con gli schienali alti e imbottiti – parevano troni senza re e regine -, sei erano state ribaltate l’una sull’altra, e allineate lungo l’unica parete libera, e infine ricoperte con un lenzuolo uscito definitamente dal suo scopo. Un’altra fungeva da appoggio per il cesto del cucito, coi manici lunghi e le levette con cui s’apriva lo scrigno d’un tesoro. Poiché si trattava davvero di un tesoro, almeno per la Consolina: tutti i suoi aghi, i ditali d’ottone, l’uovo di pomice per rammendare i calzini, i rocchetti del filo colorato, la bobina di quello bianco per imbastire, i nastri e le fettucce, tutte in disordine, a moltiplicarne la ricchezza e la sorpresa ad ogni apertura. 

Sull’ultima sedia, accanto al tavolo in modo che potesse godere la finestra spalancata, c’era un uomo. Stava con la schiena rigida, e la mano sinistra chiusa sulla seduta, come si apprestasse ad alzarsi. La destra invece era poggiata sul tavolo, e tamburellava un morse inudibile, con i polpastrelli  a sfiorare il pianale. Anche la bocca umida, sembrava seguire una partitura segreta, senza sosta. Aveva i capelli bianchi, bianche erano le folte basette che scendevano come ruscelli d’argento intorno a una pietra rugosa. Soffici batuffoli fuoriuscivano anche dai padiglioni e le narici, a compensare il ritiro senile delle cartilagini. Le altri parti del volto erano glabre, rasate con cura di recente, un dettaglio a cui la moglie non avrebbe rinunciato per ragione alcuna. Gli occhi grigi erano irrequieti, e vagavano nel tragitto tra la finestra e la porta alla ricerca di un dettaglio, una spiegazione che tardava a venire. Portava i pantaloni d’un pigiama grigio, di tessuto pettinato, e una giacca militare verde oliva, con le mostrine colorate ancora perfettamente visibili. Faceva contrasto con la divisa un bavaglio di stoffa, sotto il mento, riciclato da un bambino di molto, molto tempo prima.

“Ti ho portato una cosa buona!”, disse Consolina coprendo adesso il bicchiere con la mano per una sorpresa che per lei aveva senso, “Ti va un po’ di vino? Poco poco, un goccio soltanto, che ne abbiamo anche per la cena?”

Spostò il cestino per terra poi, dopo avere lasciato il vino sul tavolo, afferrò con entrambe le mani il trono e, trasse faticosamente lo schienale vicino al tavolo, fino a comprimere il diaframma. Porse così dapprima il bicchiere al marito, quasi potesse brandirlo da solo.

“Stufato!”, rispose la Consolina a una domanda invisibile, non appena ritornò il fiato. Poggiò nuovamente il bicchiere. Da seduta si mise a guardargli il volto con la perizia di un tagliatore di diamanti, ma tutto quello che doveva fare era strofinargli il bavaglino sul rivolo di bava, affrancato del controllo di muscoli e mucose, affiorato sul mento dalla mattina. Il pannolone lo avrebbe cambiato dopo, mica faceva la corsa.

“Eccolo qua, tutto perfetto e asciutto, come piace al suo amoruccio.”

Santino per un attimo sembrò riluttante non per la toeletta, ma del tono puerile con cui era stata impartita, un lieve mugugno di protesta che si perse immediatamente sotto i colpi di tessuto.

“Allora, lo beviamo un goccetto, che fa sangue?” Prese risolutamente l’iniziativa, porgendogli delicatamente, ma decisa, il bicchiere in prossimità del labbro inferiore, aspettando un via libera che non poteva essere dato. Lo inclinò lentamente fino a che, non potendo rinunciare al respiro, il marito cominciò a trangugiare la libagione, sebbene la maggior parte finì su bavaglia e giacca. Poco male, pensò Consolina, gratificata come ogni volta che riusciva a fargli trangugiare qualcosa a prescindere dal grado di imposizione. Posò infine il bicchiere semivuoto. Appoggiò le mani sulle ginocchia al Santino, poi con gli occhi luccicanti, si apprestò a raccontare la clamorosa novità .

“Allora, non hai idea di cosa sono venuta a sapere oggi.”