La pesca delle responsabilità

Volevo dire la mia sulla pubblicità Esselunga. Se ho esitato è perché da un lato credo se ne sia parlato troppo, alcune nuance siano state lette come radicalizzazioni, attribuendo talvolta un eccesso d’intenzione che, forse, non c’era. Tuttavia le prese di posizione ci sono state, le contrapposizioni – anche molto dure – altrettanto. E allora eccomi:

Intanto la pubblicità è furba. Scritta e girata molto, molto bene. Gli attori quasi perfetti. La bambina di suo già in odore di Oscar. L’Esselunga dove si svolge l’azione non è il tempio di luce che conosciamo, ma un ambiente più dimesso. La gente che si aggira coi carrelli non è lì a vincere la partita con la vita, non ha vinto al Superenalotto, non è nemmeno in condizione di indigenza. E’ gente che lotta, onestamente, per portare avanti la vita come pensa e come riesce. Di certo è così la madre. La bimba è una bimba qualsiasi, possiede un universo interiore – celato agli adulti -, ed è un po’ malinconica. Ma anche qui non troppo. Non è depressa, lacerata interiormente a causa delle divisioni in famiglia. Riesce comunque a giocare, non è “spezzata”. Tuttavia da questo parziale equilibrio, si ricorda di quando i genitori stavano insieme – entrambi vengono descritti, per cenni, come delle belle persone, perciò è facile immaginare che quella fosse stata una bella coppia – e ne ha nostalgia. E così parte l’espediente della pesca.

Se quella che abbiamo descritto fosse una situazione reale – per quel che vale questa parola – non ci sarebbe alcunché da dire. Beh sì, forse è un pochino idealizzata nelle sue proporzioni, ma che un bimbo possa essere nostalgico della unione dei genitori una volta separati, non ci trovo niente di assurdo. Il punto è piuttosto che questo ci viene proposto in una réclame, dove ciò che nella realtà continuerebbe ad avere un elemento contingente, e rappresentare ESCLUSIVAMENTE sé stesso, una volta trasposto in una clip pubblicitaria, ripetuta ossessivamente, gli elementi caratterizzanti la situazione trascendono la singolarità assumendo una dimensione simbolica; la bambina figlia di separati diventa OGNI figlia di separati, tutti bambini che cioè soffrono silenziosamente e talvolta azzardano manovre di avvicinamento tra i genitori.

E’ un gioco, almeno un po’, sporco. Perché intanto Esselunga ha realizzato questo spot per innalzare ulteriormente i profitti (probabilmente ci riuscirà), e non per riaprire il dibattito sociologico sul ruolo della famiglia nella società italiana. Ed essendo una operazione di marketing, vuol dire che qualcuno a monte ha deciso di ammiccare, questa volta, a “questi” piuttosto che a “quelli”. Va da sé che giochini non troppo puliti sono sempre possibili, per la medesima ragione, anche per operazioni con segni differenti. Manca infatti – sicuramente in Italia – un serio dibattito non sulla famiglia (quello ha stufato), ma sul ruolo della pubblicità e del marketing, sulla capacità di comprimere le scelte e di ridurre i margini di manovra delle persone che fanno la spesa, devono cambiare automobile, decidere un profumo, scegliere un distributore cui rifornirsi. Lo sintetizzo meglio: la pubblicità serve, oserei dire tautologicamente, a ridurre gli spazi di scelta dei consumatori, e mai il contrario. Questo sì sarebbe un dibattito interessante ma, poiché investe interessi troppo alti e remunerativi, è probabile che non avverrà mai.

Mentre il dibattito sulla unitarietà delle famiglie e e la libertà dei soggetti invece imperversa come sempre. Leggevo ad esempio su Facebook ciò che ha scritto un mio grande amico, il quale – anche, ma non solo perché divorziato – criticava in modo perspicace appunto la scelta di girare uno spot simile. Una critica che, sia chiaro, condivido fino in fondo. Ma la cosa che mi ha colpito di più è stata una replica, suppongo di un conoscente cattolico, al suo post. 

“Oddio oddio uno spot Esselunga mi ricorda che il divorzio dei genitori fa soffrire i figli! Come osano ricordarmi delle mie responsabilità?”

Niente di particolarmente intelligente o perspicace, ma un tipo di posizione che vedo, estremamente diffusa in quel mondo, la quale si fortifica con l’inerzia della cose (presunte presuntuosamente) ovvie, o persino delle tautologie.

Dire che gli adulti abbiano delle responsabilità nei confronti dei bambini è talmente ovvio, da rasentare la banalità. Ma qui si allude che la responsabilità di non far soffrire i bambini sia quella di evitargli il dolore del divorzio. Ecco la mancanza di complessità. Ecco la facezia. E la conseguenza è l’arroganza. Perché i bambini soffrono – oserei dire comunque – per una serie di cose che vanno molto al di là della separazione dei genitori. Intanto è vero, i bambini hanno bisogno di “continuità”, ovvero quando devono affrontare dei cambiamenti il loro tasso di ansia e di insicurezza cresce a dismisura. Aggiungo che oltretutto questo avviene in un ordine di grandezze disomogeneo. Per esempio un bambino può patire follemente un trasloco, mentre un altro convivere con relativa serenità il succitato divorzio. Questo può dipendere da fattori sia personali e soggettivi, ma anche da altri culturali. Sui primi non posso dire nulla, perché non c’è una ricetta sulla gestione dell’ansia che valga egualmente ogni bambino preoccupato (sottolineo tuttavia che patologie psichiche anche molto serie, come la depressione infantile, molto molto spesso sorgono proprio nelle cosiddette famiglie tradizionali, cui proprio la struttura eccessivamente rigida può favorire; nonché molti bambini possono soffrire di abbandoni pur con i genitori allacciati per tutta la vita).

Insomma la realtà è profondamente complessa, e il desiderio di ovvietà con la complessità, non si accompagna mai bene. I genitori sono certamente responsabili di arrecare il minor dolore possibile ai figli – pensare di esserne tuttavia esenti è di una stupidità criminale -, ma la cosa va articolata meglio. Intanto, in primo luogo, un bambino soffre un cambiamento in misura direttamente proporzionale alla convinzione in lui instillata che il cambiamento sia impossibile, o che sia “male”. I bambini non hanno solamente, fino a una certa età, uno scheletro molto elastico, ma anche una psiche altrettanto fluida e adattabile a contingenze differenti. Se avviene un eccessivo irrigidimento è facile che siano stati proprio gli adulti – quelli di cui si invoca la responsabilità anche a sproposito -. In un mio testo, Un elefante in cucina, facevo l’esempio per cui, se un elefante non riesce a uscire dalla mia cucina è per una duplice ragione. Una palese, l’altra invece sostanzialmente ignorata. La prima sono le dimensioni del pachiderma, e l’altra è rappresentata dall’ampiezza e dall’altezza degli archi e degli stipiti di casa mia. Mutati mutandis, se un bambino non riesce ad accettare un cambiamento potrebbe esserci irrigidimenti e fissazioni, a proposito delle quali la responsabilità dei genitori non si è attivata – per ignoranza o pregiudizio -, oppure ha lavorato in senso contrario a ciò che effettivamente serve al figlio. La vera responsabilità di un adulto non è quella di promettere a un bambino che un cambiamento non avverrà mai, ma che se anche dovesse avvenire, questi ha tutti gli strumenti per poterlo affrontare e gestire. 

Mi piace citare spesso un witz di James Hillman, di cui va ricordata l’origine ebraica, tratto dal suo lavoro Puer Aeternus:

C’è una storiella ebraica, una delle solite barzellette degli ebrei sugli ebrei, che dice: Un padre, volendo insegnare al figlio a essere meno pauroso, ad avere più coraggio, lo fa saltare dai gradini di una scala. Lo mette in piedi sul secondo gradino e gli dice: «Salta, che ti prendo». Il bambino salta. Poi lo piazza sul terzo gradino, dicendo: «Salta, che ti prendo». Il bambino ha paura ma, poiché si fida del padre, fa come questo gli dice e salta tra le sue braccia. Quindi il padre lo sistema sul quarto gradino, e poi sul quinto, dicendo ogni volta: «Salta, che ti prendo», e ogni volta il bambino salta e il padre lo afferra prontamente. Continuano così per un po’. A un certo punto il bambino è su un gradino molto in alto, ma salta ugualmente, come in precedenza; questa volta però il padre si tira indietro, e il bambino cade lungo e disteso. Mentre tutto sanguinante e piangente si rimette in piedi, il padre gli dice: «Così impari: mai fidarti di un ebreo, neanche se è tuo padre».

Questo aneddoto, che può far raccapricciare molti, in realtà è ricco di un insegnamento molto profondo. La fiducia del bambino viene “tradita” (il tradimento è il tema dell’opera) dal padre, il quale così, però, gli impartisce un insegnamento fondamentale: i tradimenti, i cambiamenti (anche radicali) NON UCCIDONO, e possono essere affrontati con la consapevolezza che, se anche papà si è tirato indietro, il bambino è in grado di rimettersi in piedi DA SOLO. Ribadisco: seppure l’esempio sia volutamente paradossale, quel genitore esercita la propria RESPONSABILITÀ di educatore in modo intenso ed efficace. Quel bambino in futuro sarà maggiormente in grado di gestire le delusioni amorose, gli insuccessi professionali e i cambiamenti esistenziali.

Alla bambina della pubblicità ESSELUNGA una cosa gliela possiamo augurare. Che il suo gesto, per quanto carico di ingenuità, abbia “successo” solo se vi sono solide ed effettive motivazioni. Perché se mamma e papà, commossi dal gesto, decidessero di tornare insieme unicamente per quel frainteso “senso di responsabilità”, per il timore che la figlia debba soffrire troppo, allora sarebbero loro a diventare infelici, e prima o poi quella bambina, magari diventata adulta, dovrebbe riscontrare di essere diventata la causa della infelicità dei propri genitori. E questo è un peso che NESSUNO, nella vita, dovrebbe mai portare. 

Io sto con Barbara

La notizia, se notizia si può chiamare, ha ingolosito molti cronisti di quotidiani on-line, impigriti dalle vacanze, desiderosi di accendere un po’ di carburante, di affilare le zanne per i mesi autunnali, e cosa poteva fare più rumore di questo: “una psicologa di sinistra – ‘molto attiva sui social’ (una specie di sentenza di presunzione, come dire che non abbia niente di meglio da fare…) – crocefigge un ragazzino di Calenda e Renzi, reo di mostrarsi con ‘un Rolex’ (ma no, ‘è un Audemars Piguet’, ha sottolineato il diretto interessato, perché se volete invidiare i ricchy dovete imparare almeno le basy)”. E via  con i rimbalzi social, le prese di posizione anche molto dure, i rimproveri e le shit storm contro la suddetta dottoressa, una specie di nuova Savonarola del web, pronta a imprimere lettere scarlatte infamanti sui degli sprovveduti e insipienti sbarbatelli, che si affacciano alla vita del paese. Alla fine sono arrivate persino le lettere sdegnate all’ordine degli psicologi (che speriamo abbia di meglio, oppure niente, da continuare a fare).

Ecco, volevo dire la mia in merito, ed è che mi schiero con Barbara Collevecchio (@colvieux). Forse non avrei intrapreso la battaglia, sicuramente avrei mollato parecchio prima, ma sono altresì convinto che fosse, e sia, perfettamente legittimo perorarla.

Due considerazioni in merito al supposto abusato, un ventunenne pariolino (no, non è illegittimo né avere 21 anni, né adottare uno stile di vita borghese, e – preciso subito – non c’è un limite al numero di orologi costosi che si possa portare sotto il polsino). Il caro Roman Pastore è perfettamente legittimato a fare quello che gli pare. Se vogliamo probabilmente sarà anche il personaggio che godrà del maggior numero di vantaggi conseguenti alla diatriba: in poche ore il suo nome, da marginale candidato calendariano a un municipio di Roma, è stato proiettato nella politica nazionale, e se tanto mi dà tanto, sentiremo parlare nuovamente di lui nel corso di pochissimi anni – anche per ciò che gli è accaduto negli ultimi giorni -. Se questa sia una fortuna o una iattura, lo sapremo esclusivamente dopo.

Quello che vorrei fosse chiaro, e almeno per me è chiaro, è che le scelte di Roman, persino quale orologio decida di indossare, o quante migliaia di Euro possa costare, sono discutibili almeno secondo due prospettive differenti. Intanto è un maggiorenne, con (almeno) un profilo social, perciò quel che lui decide di mostrare – e persino l’ostentazione sguaiata con cui mostra, orgoglioso, un orologio che la maggior parte di noi, io di sicuro, non avrà mai – è “opinabile”, ovvero passibile di opinioni favorevoli o contrarie. Non è sbagliato, certo non necessariamente, ma se ci si mostra è perché si passa dall’essere (esclusivamente) soggetti a oggetti di dibattito. Può non piacere. Anzi, se devo dire a me non piace, ma trovo sarebbe disonesto creare delle verginità a posteriori, per cui un comportamento, socialmente rilevante – è il soggetto/oggetto a farlo rilevare – può essere discusso. Non delegittimato ma, appunto, fatto oggetto di osservazioni. Una volta, ero supplente in una scuola media, un ragazzino, il quale si comportava in modo molto difficile da gestire per noi insegnanti, prese una sanzione disciplinare piuttosto pesante. Sapemmo poi che il pomeriggio stesso la madre lo aveva condotto in un centro commerciale e gli aveva preso le costosissime Adidas – proprio quelle che voleva tanto -. Insomma, lo premiò invece che dargli un segnale diverso. L’azione di quella madre è legittima? Perfettamente. 

Sarebbe stato legittimo perseguitare ragazzino – in quel caso, avendo tredici anni, lo era di sicuro -, gridandogli “viziato” ad ogni piè adidasianamente sospinto? Ovviamente no. Ma se la madre avesse pubblicato una story su Instagram, con tanto di foto dello scontrino, in cui coccolava il suo pulcino, così poco compreso e valorizzato dai suoi docenti, si sarebbe prestata a qualche critica? Ancora sì. Per esempio quando un paio di anni fa il figlio di Salvini, al tempo quindicenne, si fece una scorrazzata sulla moto d’acqua della polizia, la cosa fece discutere molto. Il padre rispose a ogni critica mossa, dicendo che “non si toccano i bambini!”, ma aveva torto. Il suo “bambino” aveva come più o meno ogni quindicenne normodotato una voglia matta di andare su una moto d’acqua, e non fa una grinza. Ma le responsabilità degli adulti, l’accondiscendenza delle forze dell’ordine, un certo bullismo da parte di chi deteneva un potere reale nel paese, un “faccio il cazzo che voglio”, sono cose che possono – devono? – essere stigmatizzate. Si può discuterne? Ancora un sì.

I social sono diventati luoghi dove si professa una assertività univoca, talvolta turpe, spesso ineducata, ostile a priori, e non possiamo fingere il contrario. O chiudiamo, e ripensiamo il ruolo dei social nella nostra esistenza, o non possiamo sfilare il filo d’erba che ci è andato di traverso. Non ci limitiamo a essere le nostre scelte, ma anche di rappresentarle, oneri e onori compresi.

Anche perché Roman Pastore non solo è maggiorenne e (spero) vaccinato, non solo sui social fa una ostentazione insistita di orologi costosissimi, ma il giovane rampollo, candidato di Calenda – come già detto – in una delle municipalità della capitale, compare anche tra gli scalpitanti puledri della scuola politica di Matteo Renzi, e anche questo è rilevante. Roman deve comprendere che la nostra è una democrazia rappresentativa, e chi si sporge verso il mondo dei rappresentanti, si espone una seconda volta. Ciò che fa, persino del proprio denaro, pur se continuerà a essere perfettamente legittimo, sarà potenzialmente oggetto di dibattito. Lo si potrà giudicare opportuno o meno, di buon gusto oppure no. E se decide – legittimamente, per carità – di partecipare alla scuola politica, di quell’istrione che porta il nome di Matteo Renzi, che nel nome di una cultura che si dice “meritocratica”, che è stato segretario di quello che fu un vero partito di sinistra, dice di voler – dal proprio scranno del 2% dell’elettorato – abolire ogni forma di reddito universale di cittadinanza, e lo fa indossando camicie ben stirate di lino, sfoderando abbronzature biscottate, sorrisi da borghesuccio arrivato, e al polso porti un Audemars Piguet da 30k, allora è bene sappia che chi si occupa della povertà nel paese, chi ha a cuore i meno fortunati, che conosce le storie di marginalità sociale (e psicologica, perché no?), le storie di ordinario abuso tra chi ha tanto, troppo rispetto a chi ha poco o niente, ebbene, può essere oggetto di critiche. Il suo personaggio – pubblico e social – potrà essere giudicato, così come il suo mentore, come un interlocutore triste e decisamente poco credibile. Sappia che il giorno in cui vorrà esporsi in pubblico con al collo il Kooh-i-Noor, farà qualcosa di legittimo quanto criticabile. Non gli è, a lui e nessun altro, data la possibilità di muoversi al di fuori di questo semplicissimo, quasi banale, meccanismo. Per fortuna.

Scritto di getto, e non riletto.

Contro Sancho Panza

Don Chischiotte

Sulla Post-Truth

 

“– Quelli che vedi là – rispose il suo padrone – dalle smisurate braccia; e ce n’è alcuni che arrivano ad averle lunghe due leghe.

– Badi la signoria vostra – osservò Sancio – che quelli che si vedono là non son giganti ma mulini a vento, e ciò che in essi paiono le braccia, son le pale che “girate dal vento fanno andare la pietra del mulino.

– Si vede bene – disse don Chisciotte – che non te n’intendi d’avventure; quelli sono giganti; e se hai paura, levati di qua, e mettiti a pregare, mentre io entrerò con essi in aspra e disugual tenzone.”

Miguel De Cervantes. “Don Chisciotte della Mancia”

Jay Branscomb lo scorso luglio ha pubblicato su Facebook una foto che ritrae Steven Spielberg accovacciato sul corpo straziato di un triceratopo, improbabile trofeo di caccia. La didascalia recitava: “Per favore, condividete la foto, così che il mondo possa svergognare quest’uomo spregevole”.

triceratopo

Pochi secondi ed ecco che i social ingaggiano con l’insensibile assassino di animali estinti una vera e propria gara di insulti – una shitstorm, per la quale non occorre traduzione -, di indignazione e così via. Si sono contate qualcosa come 31.000 “condivisioni”, accompagnate dai più furiosi commenti, che andavano dal “bracconiere” ad altri assai più triviali. E’ tutto vero.

Il fatto che Jay fosse conosciuto per altri scherzi divenuti virali, e che Steven Spielberg, fosse il papà di creature improbabili come ET e gli spilungoni alieni di “Incontri ravvicinati del terzo tipo”, non ha dissuaso i più. La foto per inciso era datata 1993, e proviene dal set del Blockbuster “Jurassic Park.”  

Si potrebbe ridere, e classificare l’episodio come una di quelle amene vacuità che ci accompagnano nei mesi più caldi, e con cui i giornalisti titillano la pigra curiosità di chi sbadiglia sotto un ombrellone. Però, a mio avviso, ci si può ravvisare molto di più. Vi potremmo cogliere addirittura lo spunto per una vera e propria mutazione antropologica e filosofica, lasciando agli studiosi del comportamento unicamente il dibattito se sia già avvenuta per intero (personalmente mi collocherei in questo “partito”), parzialmente, se sia inarrestabile, oppure ancora se vi si possa – o se si deve – porre un argine.

Perché quante probabilità sussistono che i 31.000 sedicenti  cretaceo-animalisti non avessero gli strumenti per comprendere si trattava di un fotomontaggio? Quanti tra essi, risalendo un fiume del Borneo potrebbero temere l’incontro con un Ittiosauro? Quanti ancora addentrandosi nella giungla del Congo riterrebbero effettivamente possibile lo sgradevole incontro con le fauci di uno Spinosauro affamato? Insomma, possibile che 31.000 persone siano il campione realistico di una moltitudine che ignora l’estinzione dei dinosauri avvenuta 65.000.000 di anni fa?

Probabilmente no, tuttavia il fenomeno è tale da non dover essere ignorato. Anzi, sono proprio quelle cifre il cardine della questione, perché alla vexata quaestio nella quale si sono compiaciuti per secoli i filosofi (in modo non sempre proficuo), ovvero cosa sia “veramente vero” e cosa no, trovano in questa massiccia forma di assenso parallelo, un proprio superamento, nonché una tardiva confutazione. Non si tratta in realtà di una nuova categoria, ma una digressione che si è determinata grossomodo negli ultimi cento, centocinquanta anni. Ma che solo negli ultimi trova una sua collocazione epistemologica nuova. Forzata finché si voglia ma nella stessa misura in cui gli avvenimenti costringono gli intellettuali a rivedere le proprie convinzioni.

Le 31.000 persone che hanno – a questo punto si può dire “banalmente” – dato il proprio assenso all’immagine del triceratopo non agivano una forma tradizionale della gnoseologia, ma venivano agiti da qualcosa di differente. Non hanno stabilito di dare il proprio “assenso” – che da qui in poi rappresenterà un vetusto processo per aderire al vero – a una proposizione, ma si sono lasciati trascinare da un impetuoso torrente verso valle. Da sempre esistono forme di consenso collettivo, e quando hanno trovato le afferenze e le sincronie necessarie per uscire allo scoperto, hanno lasciato più rovine che edifici. Dice in proposito lo psicanalista Luigi Zoja nel suo illuminante saggio sulla Paranoia.

“Gli impulsi alla pace non sono accompagnati da forti emozioni. Gli impulsi distruttivi sono invece inebrianti, soprattutto all’interno di una folla che diluisce la responsabilità e rinforza le emozioni.”

E ancora:

“Una folla abbassa l’intelligenza al livello inferiore dei suoi componenti…”

Due prerogative che accomunano l’attualità, ovvero l’inquietante rapidità del contagio – che non a caso si accompagna a fenomeni definiti virali -, e la prevalenza della collera rispetto a sentimenti più sociali. 

Un elemento imprescindibile di questa accelerazione è determinato dalle nuove agorà virtuali ove si incontrano (o appunto si scontrano) le persone, i social e le piattaforme digitali, nelle quali l’altro è difficilmente oggetto empatico, per la semplicissima ragione che non viene percepito nella sua fisicità, nelle espressioni del volto, nella prossemica e nella storicità del suo essere, ma solo nel “profilo” che, strutturalmente ha solo due dimensioni, mancando della profondità. Sui social avviene una identificazione arbitraria in qualsiasi altro contesto, ovvero ogni persona coincide con l’ultima cosa scritta, e se si contrasta l’opinione così espressa, quasi inevitabilmente si detesta anche il suo latore. Si creano forme di aggregazione semi spontanea, attraverso un semplice click, dove da un certo punto in poi si incontrano solo quelli identici a sé, e gli altri esclusivamente quando si intende rovesciare il fiele accumulato.

E i nuovi politici, non hanno tardato ad accorgersene. Non è un caso se i fenomeni registrati dalla macropolitica – all’incirca dalla cosiddetta “Primavera Araba” fino a tute le elezioni più recenti, passando per la Brexit, gli indignati e le varie proteste no/tutto – si sono costituite con questa malta a presa rapida e scarsa tenuta. Fenomeni che montano con velocità inusitata, e con altrettanta rapidità si sciolgono a prescindere che l’obiettivo sia stato raggiunto o meno. Non siamo più alle prese con un “pensiero solido”, ideologicamente organizzato e perseguito con tenacia, quale poteva essere quello del ’68, o i giovani di piazza Tienanmen. Spesso dietro non c’è un pensiero evoluto, ma  un germoglio sadico irrorato da scariche viscerali, tempeste che si addensano e scompaiono prima di essere socialmente rilevabili, e che entrano nei radar dei sociologi quando vengono intercettate e coartate da leader massimalisti. Spesso arroganti e con pochi scrupoli, “qualità” che in queste temperie vengono purtroppo premiate.

E’ quello cui stiamo assistendo. In un’epoca nella quale si dovrebbe godere delle conquiste dei decenni precedenti, in cui facilmente ci si fregiava della pseudo tolleranza volteriana, sintetizzata nell’incipit

“Non sono d’accordo con quello che dici, ma darei la vita perché tu lo possa dire.”

alla quale non hanno seguìto i comportamenti consoni, vedendo prevalere piuttosto l’oltraggio, gli imperativi su ciò che gli altri dovrebbero fare, sdoganando definitivamente l’insolenza. 

Ma se a segnare il passo è stata appunto la tradizione illuminista e tollerante, ce n’è un’altra che a questa mutazione ha dovuto soccombere persino in misura maggiore. Vi abbiamo già fatto cenno.

La gnoseologia occidentale è la principale vittima del forsennato cambiamento cui siamo testimoni. Essa ha attraversato i secoli evitando che il suo caposaldo venisse messo in discussione, ovvero che c’è una distinzione chiara, univoca e indefettibile tra oggetto e soggetto; che “l’oggetto è oggettivo”. 

Non si tratta di una sterile querelle filosofica, dibattuta da noiosi accademici barbuti nelle aule fatiscenti di un ateneo, perché parliamo di quella parte della filosofia che è diventata il cosiddetto immaginario collettivo dentro il quale, volenti o nolenti, siamo costretti a muoverci. Di più anzi, perché mentre quelle certezze nel dibattito degli addetti ai lavori sono state largamente messe in discussione – pensiamo all’idealismo in filosofia o alla meccanica quantistica – nella percezione dell’uomo comune, essa permane profondamente radicata. Confidiamo così tanto nella nostra capacità di cogliere realisticamente gli oggetti, che l’unica cosa di cui non dubitiamo mai è, altresì, quella più semplice: forse ci stiamo sbagliando. E che forse non possiamo non sbagliarci.

Dice Fritjof Capra ne “Il Tao della fisica”:

“Cercando di comprendere il mondo, ci troviamo di fronte alle stesse difficoltà che incontra un cartografo che cerchi di rappresentare la superficie curva della Terra con una serie di mappe piane.”

Un testo datato, ma estremamente attuale ed efficace. Se la nostra capacità di conoscere è simili alla cartografia piana, e la terra ovviamente sferica, ostinarsi nella strada della descrizione oggettiva, moltiplicherà i fraintendimenti invece che bonificarli.

E’ questo il dato curioso: i 31.000 indignati dalla caccia di Spielberg ai triceratopi sono esattamente gli stessi persuasi della “oggettività” delle proprie osservazioni. 

Il dogmatismo, la pretenziosità nonché la conseguente virulenza delle prese di posizione, anziché contrapporsi dialetticamente  sono invece posizioni concentriche.

Mi spiego.

Nel wrestling esiste una tradizione, denominata keyfabe, per la quale gli spettatori di un match “sospendono temporaneamente” l’incredulità – altrimenti opportuna – affinché ci si possa godere lo spettacolo. Solo questo consente l’efficacia della finzione scenica, gli eccessi di performance cui gli atleti si accreditano prima di salire sul ring. Quel bestione è davvero alto due metri e quindici? Possibile che siano centosessanta chili di muscoli? E’ davvero arrabbiato contro l’avversario?

wrestling

Ecco, a noi manca la keyfabe. E poiché non siamo riusciti a immaginarne una, quando ad esempio parliamo di politica, o calcio, confondiamo sempre la realtà con una parte. E che continuerà ad essere una parte, per quanto noi si possa essere in buona fede. Specialmente. Non ci siamo attrezzati a suo tempo a comprendere che c’è un difetto d’origine nel rapporto tra cartografia e conformazione dei continenti (peraltro alcune tra le più curiose delle bugie sviluppate in rete parlano proprio di una terra che sarebbe piatta, oppure che l’esistenza della Finlandia sarebbe un costrutto mediatico), e quindi se le carte non funzionano sono i continenti a essere sbagliati. Non è un caso che le persone più pronte ad accumulare compulsivamente le “prove” oggettive, per le più strampalate tesi, sono proprio i paranoici.

Sui social si diffondono come macule del morbillo le più disparate fake news, si dibatte sulla postmodernità della verità (o sulla contemporaneità della frottola), e le redazioni dei giornali si affidano necessariamente ai debunkers, i commoventi paladini della “verità oggettiva”, pronti a demistificare con largo uso di documenti e di fotografie qualsiasi bugia, ma per quanto essi si sforzino non riusciranno mai a superare il difetto nel manico: non c’è una verità provata, non c’è documento fotografico in grado di inchiodare quel tale a quella circostanza. Perché non c’è una verità oggettiva. Già Leon Festinger, poco più di mezzo secolo fa, ha documentato irrefutabilmente che il nostro cervello è strutturato per sopportare solo una modica quantità di verità e di evidenza. Ed esclusivamente quella che ci serve di più, quella che si armonizza meglio con il nostro consolidato sistema di convinzioni. Per tutto il resto occorrerebbe magari un po’ di ironia.

Siamo stati inconsapevolmente indotti a pensare che la conoscenza fosse, per dirla con Tommaso d’Aquino, Adaequatio intellectus ad rem, e non sono state sufficienti tre critiche kantiane e tutto il dibattito successivo, a farci recedere da quel passo. Ma non era vero. La nostra conoscenza non è sufficientemente ampia e profonda per cogliere “la cosa in sé”; invero essa è uno strumento più rigido che imprime all’oggetto la propria stessa forma, per poi stupirsi della corrispondenza fittizia. Quando noi pensiamo di conoscere qualcosa avviene una sorta di esplosione controllata delle nostre connessioni sinaptiche, una innumerevole quantità di microscopici ictus cerebrali  – l’immagine ovviamente no ha alcun fondamento scientifico, però rende l’idea – convogliano la rappresentazione di ciò che abbiamo di fronte nella melmosa palude di ciò che sapevamo anche prima.

Abbiamo aperto questa lunga riflessione con il noto passo di Miguel De Cervantes dove Don Chisciotte e Sancho Panza si confrontano sulla vera natura dei mulini a vento, e ogni lettore sa in partenza quale dei due personaggi sia un visionario patetico e chi il suo contrappeso realistico Sancho Panza. Solo Don Chisciotte può confondere, a causa della sua comica follia, a confondere per giganti i frantoi e le macine sulla riva del fiume. Ma è davvero così? Certo il lettore collude, per tutte le ragioni che abbiamo stabilito, col dimesso Sancho. Perché siamo stati educati nella stessa rappresentazione, che però è vera solo in quanto è stata accettata da una serie di attori sul proscenio. E che si tratti un mulino è la cosa che serve per evitare, appunto, di passare per folli o patetici, e per evitare di farsi più male del necessario. Oltre che per non alimentare paure più irrazionali, che tuttavia continuano ad abitarci più in profondità.

Ma si tratta ancora di utilità, non di verità. Cosa ci sia lì, oltre le convenienze e le paure, oltre a tutti i fulminei ictus che ci fanno convergere verso una determinata rappresentazione, non è dato saperlo. E forse Don Chisciotte potrebbe averci visto lungo.