Filastrocca

A volte mi domando,

dove sei, chi ti placa, 

quale ombra ti nasconde

in che foresta ti sei inoltrata

se ci son lupi, fate ed elfi

di una fiaba non raccontata

 

A volte guardo

oltre gli orli del tramonto

prenotando(ti) dopo il mondo

quando il tempo più non incute

il terrore nelle notti 

delle cose incompiute

 

E mi resto così, 

sentinella del respiro

non c’è vuoto né tristezza

una stella fucilata

che protesta al firmamento

il punto esatto cui (mi) sei nata

 

Alla fine sono qui,

strappo ciocche al nostro vento

taglio trucioli di stella

inspiro aria respirata

prendo tempo senza tempo

fisso l’uscio da cui sei andata

 

Mi attraversasti a piedi scalzi, 

quella notte di un aprile

il campo gelido, di sterpi e rovi;

al momento cui mi destasti 

[per donarmi il tuo tepore,]

fu così l’unica mia alba,

di un caustico nitore

 

Ti ho perduta mille volte

neanche una ti ho ritrovato,

ma più tu t’allontanavi

più affondavi nel mio cuore

poiché solo la distanza

è lingua unica di Amore

 

Che volevo, né sapevo

io che fui quel primo giorno

ciò che sono e ciò che ero

il solco resta ed è fissato

mai più oltre avrò a cercare

ora che so quanto si può essere amato

 

Non mi occorre niente altro

che pensarti di te

che stai bene, e non ti sprechi

ti trattengo nel mio costato,

ti amai quando non sapevo amare

t’amerò fino a che l’avrò dimenticato

Due o tre cose che ho capito della psicanalisi

 

 

Caro Claudio Mercandelli

ho finalmente letto il suo scritto. È molto bello e quasi saggio, mica da tutti i giorni

Moltissimi saluti
Luigi Zoja

Un anno e mezzo fa stavo viaggiando in moto, una macchina girò improvvisamente verso il distributore mentre la sorpassavo, le piombai addosso e caddi rovinosamente. Fortunatamente me la cavai con parecchi lividi ed un paio di escoriazioni profonde, ma chiamarono ugualmente l’Ambulanza. Mi portarono tutto steccato al Pronto Soccorso, dove passarono diverse ora prima di medicarmi. Quando entrai nell’ambulatorio la ferita era ormai cicatrizzata, e la sabbia del manto stradale penetrata. Allora un’infermiera orientale mi tagliò il jeans e cominciò con una spugnetta assai ruvida a lavorare sulla ferita energicamente. Raramente ho provato un dolore come quello. Credo di averle detto cose inenarrabili, al punto che il chirurgo mi sgridò, e io mi dovetti scusare.

Ecco, quando penso alla psicanalisi penso a qualcosa di simile. La storia delle persone – tutte – ha reso le nostre anime piene di ferite, lacerazioni, croste non ancora suppurate, muscoli sviliti, piaghe da allettamento, lividi e carni escoriate, che talvolta dolgono insopportabilmente, e qualche volta molto meno. Talvolta si riesce a vivere anche così. Ogni tanto invece no.

Cinquanta anni fa temperamenti depressivi, matrimoni sostanzialmente infelici ed esistenze cronicamente sofferenti erano sostenute da un tessuto sociale vivo, dove i parenti, gli amici persino i vicini di casa erano una risorsa costantemente attingibile. Qualcosa di simile accade ora in alcuni habitat sociali, dove la famiglia più o meno funziona, la comunità può essere omogenea, il movimento politico o ecclesiale cui si appartiene svolge una efficace funzione di contenimento di tutte le dinamiche. Ma il contenitore e il contenuto continuano a essere cose molto differenti, perché sotto le armature la carne duole egualmente, e proprio la rigidità delle strutture nelle quali si ascrivono i propri vissuti può amplificare il dolore, conferendogli una connotazione claustrofobica.

I contenitori sono da sempre una risorsa che consente di attraversare la prosaicità della vita sostenuti, incoraggiati e aiutati in un qualche consorzio. Ma essi non sono mai la risposta autentica a quelle sofferenze, così come una ingessatura non determina la guarigione da una infezione. Accade anzi anche che essi diventino parte del problema medesimo. Perché in un dato momento la carne sotto il gesso comincia a prurire. Magari incancrenisce. Per quanto possa essere grave una frattura, non si può vivere con i propri arti immobilizzati da un tutore. Prima o poi lo si deve levare, e cominciare a camminare da soli.

Oggi il tessuto sociale è profondamente cambiato e il restare a fianco dei propri sposi, così come la maternità e la paternità (mestieri assai più problematici di come lo stereotipo vorrebbe) vengono ora affrontati in solitaria. I contenitori sono molto più esili e le manie e depressioni che caratterizzano la vita postmoderna diventano ora pareti insormontabili. Così progressivamente cresce il numero delle persone che avvertono la propria esistenza come un sacco che si va restringendo, sentono la vita sfilarsi tra le dita e cominciano ad avvitarsi nei rimpianti e le recriminazioni per ciò che non solo non si ha avuto, ma per ciò che ci si è impedito immaginare di poter avere. Spesso si finisce per caricare le persone circostanti della responsabilità di essere esse stesse sbarre di quella gabbia invisibile. Invero una responsabilità immeritata, o non del tutto meritata.

Porte

Ho scritto di recente che “nel tempo si odia ogni cosa non si sia potuta scegliere”. Potrei aggiungere che anche le cose che si sono scelte per ragioni parziali e provvisorie, le circostanze che si sono assunte nel vincolo del bisogno, diventano nel tempo intollerabili.

Ogni ambiente, psichico o fisico, vive nella traiettoria dell’adattamento dinamico, della ricerca di una omeostasi. E qualsiasi evento- anche profondamente traumatico-, tende ad assorbirsi e integrarsi un po’ come il proiettile che oramai fa parte del corpo di Gino Paoli. Si sopravvive a qualsiasi cosa, o quasi. E passando gli anni ci si adatta ad ogni situazione, come prevaricazioni, sudditanze, compromessi e microviolenze subite. Il trauma viene allora mandato a fare parte del tessuto del nostro inconscio, dove spesso rimane immerso nell’arco di una esistenza intera. Una posizione dalla quale però continua a intromettersi, a contaminare, polarizzare, sbilanciare le dinamiche consce e determinando OGNI SINGOLO SENTIRE. Da queste dinamiche, rimosse o scisse perché troppo dolorose, nascono le nevrosi e più raramente le psicosi.

Accade anche però che ciò che si vorrebbe seppellito emerga- anche attraverso i sogni-, con movimenti ancora più potenti, e i traumi tornino ad affiorare nella vita di tutti i giorni.

La psicoanalisi è esattamente analoga al drammatico lavoro di quella infermiera. Si va a cercare la carne viva del trauma, con un lavoro che è contemporaneamente esplorativo, lenitivo e contenitivo, facendo affiorare le parti che si era tentato tenacemente di tenere nascoste a se stessi. Arrivano così nuovi dolori, passioni, tristezze, scompensi e comportamenti profondamente differenti rispetto a quelli che si erano referenziati fino quel momento. “Non ti riconosco più”, dicono i familiari e gli amici, quando con disappunto registrano introversi che ora si buttano fuori nel mondo, temperamenti remissivi diventano ribelli, uomini mansueti tirano fuori improvvisamente le unghie, inappetenti che diventano voraci, persone ordinarie che mostrano ora latitrasgressivi. Quegli amici hanno ragione. Ciò che però essi non conteggiano è che sta emergendo è solo la parte mancante, a lungo censurata. Ed emerge proprio così. Con tanta più esplosività -si noti bene!- quanto più era stata compressa. Come una tigre che diventa particolarmente feroce se le pareti della gabbia erano molto anguste. L’inconscio è come quella tigre, che ora vuole ferocemente affermare la parte negata. Spesso i comportamenti più trasgressivi nascono da impianti educativi fortemente colpevolizzanti e castranti.

Questo in analisi è un passaggio è molto delicato, perché la persona che cambia pelle in quel momento rischia di perdere le redini della trasformazione. “E’ impazzito” recita il mantra di coloro che furono prossimi. Talvolta si impazzisce. Quello che gli amici non sanno è però che “la pazzia” comincia sempre molto prima della sua manifestazione, e “cose da pazzi” furono gli strenui sforzi operati fin dalla primissima infanzia per essere la persona che non si era, magari per compiacere un genitore prima, un coniuge dopo, un gruppo di amici o un Dio.

 

Divano analisi

Se l’analisi funziona allora il soggetto trova nel tempo (un processo che richiede tempi lunghi, talvolta lunghissimi) un nuovo assetto, che non è più quello mutilato e parziale precedente, ma uno stato dove le forze inconsce dialogano con la coscienza, diventando ora parte di un sistema integrato che Jung chiama il “Sé”. Una persona nuova che avendo oltrepassato confini fin lì invisibili, frutto di educazioni prescrittive o argini a storie troppo dolorose, guadagna un enorme patrimonio energetico alla libertà attraverso l’emancipazione dal bisogno e la necessità.

Tanti anni fa, sul retrocopertina di un libro che ritenevo molto importante, compariva una scritta che recitava più o meno: “Ogni percorso nella vita non può partire che dalla decisione ad essere se stessi.” Una affermazione autentica, a condizione che quel compito non venga fagocitato nella traiettoria dell’ennesima appartenenza, l’ennesima mitopoiesi o l’ennesimo contenitore.

Perché quando si comincia a vedere nel fondo della propria anima si comprende cosa si può accettare e cosa risulta intollerabile. Si comincia a scegliere, a non subire più. Si giunge ad amare la persona che si è, e non quella che provarono surrettiziamente a imporci di essere.

E forse alla fine potremo perdonare persino Dio di non averci mai chiesto “posso?”.

Un elefante in cucina

(lo scandalo, il perdono e la leggerezza)

Giovedì mattina, trasmissione radiofonica, si parla ancora del professore di Saluzzo. In studio una claque di esperti che fanno sostanzialmente una cosa sola: condannare senza se e senza ma l’insegnante, reo di essersi portato a letto due studentesse di sedici anni. Esperti convocati ancora una volta per ribadire la natura libidinosa di quella relazione nata davanti alla cartina politica dell’Europa, si fa un gioco facile, e si va a raschiare il fondo del barile delle ovvietà, non disdegnando talvolta pescare quello tracimante della banalità.
Tutto pare essere chiaro.
Ad esempio una professoressa/ psicoterapeuta/ aspirante tuttologa che in coda alla trasmissione, spiega che se l’episodio si fosse verificato con una polarità opposta rispetto a quello stigmatizzato dai giornali agostani, cioè con l’insegnante donna e il discente maschietto, la cosa sarebbe molto diversa – al punto di provocare qualche sorriso compiacente nei cultori dei B movie degli anni 70 -, perché gli uomini hanno il testosterone che induce a pensare al sesso 4 volte ogni ora, mentre le donne hanno il progesterone che ammalia con le sue seduzioni soltanto 4 volte ogni giorno. L’aspetto più curioso è che per sostenere il principio viene invocata una causalità rovesciata, per cui sarebbe meno colpevole chi viene pressato in modo meno determinante dalla propria fisiologia. In altre parole pur di mantenere inalterati i paletti sui quali si regge la visione “tradizionale” con la quale si interpreta l’episodio, si arriva a capovolgere il principio della “incapacità di intendere e di volere”.
Chi scrive ha già dichiarato quanto sbagliato sia stato l’operato di quell’insegnante, e a scanso di equivoci ritiene legittima la universale aspettativa di allontanarlo dal mondo della scuola, quali che siano i risvolti penali della vicenda. Ma la sensazione è che vi sia molto di più accanto al fuoco. Perché episodi di questo tipo, che incarnano archetipicamente simbologie incestuose, scatenano pruriti ed esecrazioni che spesso passano il segno, indicando una rimozione collettiva che andrebbe guardata più da vicino, e con minor enfasi.
Poiché esiste l’episodio considerato in se stesso, al quale si va a ad aggiungere la sua dilatazione mediatica, il senso di proibito e di scandalo che contiene, a mio avviso, temi inconsci più delicati.
L’episodio in se stesso è facilmente inquadrabile, come “abuso” perché i contraenti la relazione lo hanno fatto da una posizione non paritetica, asimmetrica quindi, e con un minor tasso di libertà da parte di chi quella relazione l’ha subita da una posizione di “inferiorità di potere”. La radice della questione è proprio qui: qualsiasi abuso si verifica perché uno dei contraenti non era in condizione di poterlo volere fino in fondo. L’oltraggio si misura quindi nella prevaricazione della libertà delle – in questo caso – discenti. Qui la comprensibile condanna della pedofilia, dello stupro e, sia pure su un altro livello, delle azioni del professore cuneese. Qui lo scandalo, i suoi aspetti inaccettabili.
Ma davvero non c’è altro?
La parola scandalo deriva dal greco “skandalon” che significa ostacolo, oppure inciampo. Ora ogni scandalo si costituisce su una doppia dimensione, e non su una sola come invece viene colto nella sua rappresentazione collettiva. In uno scandalo vi è il “fatto scandaloso”, la sua dimensione e la sua portata, poi generalmente misconosciuta vi è la propensione allo scandalo dei soggetti direttamente o indirettamente coinvolti. Mi farò capire con un esempio: se un elefante cercasse di entrare nella mia cucina, non vi riuscirebbe, incontrando un ostacolo insormontabile negli stipiti della mia porta. Ora lo scandalo- in senso etimologico- qui sarebbe determinato da due fattori, il primo ovviamente costituito dalla mole del pachiderma, ma il secondo è invece determinato dalle dimensioni della porta medesima. Uscendo di metafora: un insegnante che si porta a letto una studentessa commette qualcosa di elefantiaco, sbagliato, asimmetrico e inaccettabile. Ma la percezione di questo fatto- le dimensioni della porta-, non sono fissate in modo immutabile una volta per tutte. La studentessa in questione potrebbe subire due abusi, e non uno solo, perché se in una fase iniziale potrebbe facilmente sottovalutare l’impatto che quella relazione potrebbe avere sul proprio contesto di appartenenza, in un secondo – specialmente se la combine è venuta alla luce del sole – quella ragazza sentirà sulla propria pelle il peso del giudizio che universalmente è stato associato alla sua vicenda. Non basterà quindi che qualcuno le dica “non è stata colpa tua”, perché almeno la vergogna di averlo consentito, rinforzata addirittura dall’esasperazione di un giudizio di innocenza, la avvertirà. E sarà un peso insopportabile.
La suddetta educatrice intervenuta nella trasmissione radiofonica di questa mattina a un certo punto ha detto che la fanciulla, perlomeno quando avrà quaranta, poi cinquanta o sessanta anni, ne avvertirà la vergogna. Ma come può dirlo? Forse possiede una palla di cristallo? Non è possibile che tra dieci o quindici anni quel professore e le sue studentesse si incontrino riconoscendo l’errore che hanno commesso e tuttavia il bene che si potrebbero pur essersi voluto, e il bene che si potrebbero essere fatti? Ma soprattutto quanto influirà nella formazione di quel sentimento la sua dimensione sociale, ovvero quanto il contesto di appartenenza abbia ritenuto quella cosa “vergognosa” (e solo vergognosa) sin dal suo inizio? È facile la valutazione di quella educatrice, ma parte da una premessa sottaciuta, e quindi molto pericolosa, ovvero che la linea di demarcazione tra ciò che è scandaloso e ciò che non lo è, viene stabilito da chi i giornali lì legge, e da chi li scrive. Molto meno da chi fornisce loro il materiale su cui lavorare.
E gli stipiti di questa porta non sono né immutabili, né postulati veri per tutte le culture e tutte le epoche. Come ho già scritto altrove (cfr. la mia lettera ad Alessandro D’Avenia) la asimmetria di relazione è una condizione vera, ma rappresenta una disparità storica, non ontologica. Essa non è destinata a permanere a meno che i soggetti implicati rimangano avviluppati dalla crisalide della vergogna e nella simbiosi perversa carnefice/vittima; a un certo punto dovrebbero decidere di fare un passo in avanti. Non occorre poi ricordare che esistono e sono esistiti modelli di civiltà e di educazione che integravano ciò che per noi, adesso, è abominio. Che lo sia perché noi pensiamo lo debba essere, ha un aspetto di arbitrarietà francamente inaccettabile.
Le cose poi non vanno molto meglio all’estero, come negli USA dove, per un bellissimo editoriale del Washington Post, nel quale Betsy Karasik, commentando un fatto simile a quello di Saluzzo segnalava la pericolosità della “vera e propria isteria con cui la società risponde a queste situazioni (che) serve meno a proteggere i bambini che a confortare il bisogno della società stessa di pensare che li stiamo proteggendo”, il quotidiano è stato sommerso da una innumerevole quantità di lettere di protesta per quelle parole. Eppure la scrittrice statunitense indicava un principio di semplicissimo buon senso. Tornando all’esempio dell’elefante in cucina, è come se la società ponesse più attenzione a vigilare che la distanza tra gli stipiti della porta non venga mai messa in discussione, più di quanto non si considerino gli effettivi danni prodotti dall’elefante una volta che scorrazzi tra pentole e bicchieri.
La società occidentale si è costituita sul paradigma dell’incesto, da Edipo in poi, sia in quanto “tema oscuro” della costituzione della affettività delle persone, sia come censura di questo, e il conseguente tabù. E come ogni tabù viene rispedito nelle aree più remote dell’inconscio collettivo e personale, da dove fa sentire la sua potenza sia che accadano episodi come Saluzzo, sia che non ne avvengano più. Non sono forse le stesse persone a puntare l’indice contro il professore abusante, a stracciarsi le vesti davanti a un cotale scempio, ad avallare poi le immagini vagamente pruriginose di un paio di sessantenni che in prime-time guardano lubricamente dal basso due “veline” diciottenni che ballano, in abiti succinti, sopra di loro? Chi scrive non ha sentenze da produrre, e men che meno intende aumentare un senso sociale dello scandalo del quale, nell’epoca degli indignati, non vi è alcun bisogno. E non intende neppure assolvere chicchessia. Ma vuole solo ricordare che la civiltà giudaico cristiana si è sviluppata dallo “scandalo”- per greci e giudei- di chi computò all’adultera l’amore come giustizia: “sono perdonati i suoi molti peccati, perché ha molto amato.” (Lc. 7,23-8,3)
Colui che ha il potere di trasformare il vino in acqua, ha anche il potere di fondere l’instabile e gratuita logica dell’amore- quello sacro e quello profano- nella più pesante lega della simmetrica giustizia, e di conteggiare il peccato come virtù. In questo bellissimo passaggio, vi è l’attestazione dal principio giuridico di chi compie l’azione, come compresero perfettamente quanti assistettero alla scena (“Allora i commensali cominciarono a dire tra sé: «Chi è costui che perdona anche i peccati?»”). Ma il potere del perdono qui descritto si protende anche verso una dimensione diversa, che oserei chiamare “intrapsichica”. L’adultera non è perdonata solo in una traiettoria giurisprudenziale, dove occorre il (onni)potere di levare i peccati, ma anche in quella- non contrapposta, ma neppure coincidente con questa- di rendere il peccato più leggero da portare per chi l’ha compiuto, che si condensa in una espressione “va’ in pace!”. La lascia andare, la alleggerisce di un peso che altrimenti non le avrebbe consentito di uscire dalla stanza del senso di colpa. Di più. Suggerisco una conclusione paradossale: se non esistesse quella dimensione di leggerezza nell’atto del perdono, allora sarebbe l’adultera a dover perdonare Gesù. Lo dovrebbe perdonare per avere dovuto spremere fino in fondo il serbatoio della infinita potenza per toglierle il suo peccato. Come un bambino che fa a pugni con il prepotente della classe, e con un occhio livido viene indotto dal proprio padre a dire cosa sia accaduto, e quest’ultimo per “fare giustizia” si presenti a casa dei genitori del bulletto con un ordigno nucleare.
Insomma, colui che aveva il potere di togliere i peccati in una dimensione salvifica, come avrebbe potuto non essere interessato alla facilitazione dell’esistenza di chi ne avrebbe in ogni caso portato il fardello psichico? L’adultera non viene “solo” perdonata, ma le viene comunicato che forse poi ha da perdonarsi meno di quanto temuto. Un uomo così non si sarebbe scandalizzato come molti nostri maître-a-pensée.
Perché non è sempre necessario rimpicciolire gli elefanti per ingrandire la porta della cucina.