Bang!

“Bang!”.

Il grido rimbombò esagerato nella sala da pranzo dell’Ospizio. Dio si risvegliò di soprassalto con un filo di bava. Era stato davvero lui a gridare in quel modo? Nel sonno? Un’infermiera contrariata si stava avvicinando. Con un gesto sgarbato gli prese il fazzoletto umido, dimenticato come una lurida pochette, e gli asciugò l’angolo della bocca. Intorno gli altri anziani lo guardavano perplessi, e nella televisione laggiù in fondo una signorina con la faccia gialla sorrideva come una deficiente, e gridava quanto fosse contenta per un sapone. Lo sfarfallio disturbava la parte inferiore della immagine. Ma nessuno sembrava curarsene. Una deficiente, ecco.

Un vecchio con cespugli ispidi al posto delle sopracciglia, non si accorse di nulla e continuò a impilare carte sudice sulla cerata bianca a quadrettoni rossi. Era giunto a uno stallo, ma continuava a osservare le carte disposte sul tavolo con la speranza che si combinassero meglio da sole. Doveva essere molto stanco. La donna di fiori affondava per metà in una chiazza di caffellatte, a certificare il poco riguardo per il decoro e l’igiene. Un paio di richieste informali, blande proteste di parenti e persino la lettera di un avvocato – nipote alla lontana di una corpulenta anziana che, sei mesi prima, si era spenta poche settimane dopo il suo ingresso nel gerontocomio -, fiacche ed esili come ragnatele, galleggiavano inerti sulla scrivania della direzione; le buste ancora sigillate.

Dio era ancora confuso, si sentiva una palla di cannone nella testa per il brusco risveglio. Ringraziò l’infermiera sussiegoso , esagerato, e rivolse agli altri vecchi uno sguardo affannato che, nelle intenzioni, avrebbe dovuto rassicurare dall’eventualità che si ripetesse una cosa talmente incresciosa, bofonchiò delle scuse, che stava dormendo e… Quelli però nemmeno lo ascoltavano più, avevano ricominciato a guardare la tivù, a inseguire le carte rovesciate sui tavoli luridi, a borbottare nel sonno di sogni increspati. Una signora con la testa bianchissima, che indossava una vestaglia di seta cinese dai colori appariscenti, si era avvicinata col deambulatore alla TV per colpirlo fiaccamente ed eliminare lo sfarfallio. La signorina diafana continuò a sfrigolare della fronte in giù, senza curarsene, strillando invece di quanto fosse felice e con un alito profumato da quando usava  quel dentifricio.

Dio affondò i gomiti sui braccioli della sedia a rotelle e si issò di qualche centimetro,  gemendo e storcendo la bocca per l’affanno. Una fatica della malora! Le natiche gli dolevano, ma non si sarebbe lamentato, non lo faceva mai. E poi, a che sarebbe servito? Allungò una mano tremante verso la tazza di plastica azzurra, dove il tè era diventato freddo da un po’. Amaro, come sempre. Per quante zollette di zucchero, o pastiglie di dolcificante vi sciogliesse, non riusciva a farlo diventare un po’ più dolce. Di certo era perché le infermiere gli avevano sciolto le medicine dentro, Dio ne era certo. Medicine superflue, o che lo facevano dormire troppo. Ecco, era colpa loro se aveva gridato nel sonno, sissignore! Specialmente il sudamericano, che sorrideva sempre con un’espressione che più falsa non si poteva. Non gli piaceva per niente: “per ni-en-te!”, compitò soddisfatto spingendo la lingua contro il palato a ogni sillaba, facendo schioccare la protesi. Poi tornò a rimuginare, “Sonniferi, ci mettono i sonniferi e poi ci rovistano nei cassetti mentre dormiamo. La mia catenina è sparita così…”, poi afferrò la tazza, e dimenticatosi del ricettacolo di minacce che vi albergavano riprese a sorseggiare. La appoggiò nuovamente sul tavolo. Una chiazza oleosa si era formata sulla superficie del liquido. 

Poi dovette passargli un ricordo per la mente, perché un lampo ruvido gli attraversò lo sguardo opaco. Infilò ansimando, la mano nella tasca sdrucita nei pantaloni del pigiama “da ferroviere”,  per lo sforzo producendo due asole oscene nella zona inguinale. Per fortuna non importava a nessuno. Tanto meno a lui. Alla fine estrasse una voluminosa pallottola di carta stagnola; prese a cercarne faticosamente l’estremità, un lembo appiattito, strizzando gli occhi e spingendo fuori la punta della lingua. Estenuato fu lì lì per abbandonare la ricerca più volte; infine, quando l’ebbe ritrovato con un polpastrello, lo svolse lentamente. L’operazione durò diversi minuti, a causa delle mani e della vista barcollanti. Quando delicatamente, con soddisfazione concluse l’operazione, si fece circospetto. Si ricordò degli occhiali, che gli pendevano inerti per una cordicella al collo, imprecando per il colpevole ritardo con cui se n’era ricordato. L’infermiera si era allontanata, dietro alla scrivania, dove teneva gli occhi serrati su un libro traboccante di sentimenti impossibili; gli altri guardavano la TV. Il vecchio che faceva il solitario, stremato, si era infine assopito. Respirava in modo scomposto anche nel sonno. Dio allora estrasse una pietra azzurra levigata, con delle striature blu e verdi. La ghermì per qualche secondo con la mano sinistra e poi tenendola sul palmo la portò vicino alla bocca e vi soffiò sopra. La pietra si animò di una luce vivissima, divenne iridescente eppure fredda per alcuni interminabili istanti. Il sasso mandò un bagliore che gli accese gli occhi. E ricordò: “Bang…”, ripeté questa volta con un filo di voce. Con il volto illuminato abbozzò un sorriso. L’infermiera però stava accorgendosi di qualcosa. Allora Dio frettolosamente si nascose la pietra in grembo, ove celandola da occhi indiscreti la riavvolse nella carta stagnola. Ripose l’involucro infine nella tasca della vestaglia marrone. Infine compiaciuto reclinò la testa all’indietro e riprese a dormire. Sorrideva.

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