Un uomo invisibile

Non che non ci vedesse tanto poco, o che il suo vederci poco fosse talmente esplicito da fargli assegnare etichette e soprannomi da parte di quel tipo di studenti – una significativa e chiassosa minoranza, ma pur sempre una minoranza – che preferisce imputare i propri insuccessi scolastici alle difformità degli insegnanti piuttosto che alla mancanza di studio; “Hubble”, o “Quattrocchi”, oppure “Monte Palomar” lo avrebbero potuto appellare, mentre invece avevano avuto questa clemenza. 

E questo era di per sé strano, perché nella sua scuola c’era questa curiosa tradizione di affibbiare un soprannome a tutti quelli che vi lavoravano. Non c’era un motivo preciso, né qualcuno si ricordava il perché la cosa avesse preso piede. Ma non c’era insegnante, bidello o segretaria cui non ne fosse stato affibbiato uno. Persino i supplenti che rimanevano poche settimane non sfuggivano all’usanza locale. Tutti, ma proprio tutti, con l’eccezione del professor Correnti, che pure vi insegnava da tre lustri.

Si trattava per lo più di soprannomi bonari, che tendevano a valorizzare una peculiarità dell’aspetto fisico, le attitudini oppure la provenienza, mai però, mai, con intento canzonatorio. Magari si andavano a toccare anche aspetti caricaturali, sempre con l’intento di rappresentare la persona come curiosa e speciale, piuttosto che marcarne una mancanza fisica, o una pesantezza caratteriale. 

Per fare qualche esempio, il professor Anselmo Lucci, romano e tifoso sfegatato della Lazio, dopo appena una settimana era stato ribattezzato Aquila, mentre Vanessa Tedaldi, che aveva vissuto per molti anni in Argentina, era diventata la Pampera. A Sergio Donati, l’allampanato insegnante di religione, affetto da una forma precoce ed aggressiva di alopecia, gli era stato affibbiato un cordiale Kojak, oppure Amanda Dolenti, la giunonica DSGA, che era stata ribattezzata Milly, perché ricordava la gioviale casalinga, protagonista di un telefilm degli anni ’70.

Alcuni soprannomi erano più azzeccati di altri, ma ci si sbaglierebbe a pensare che la relativa assegnazione fosse improvvisazione o, peggio, approssimazione. Perché ci si teneva davvero. Una tradizione cominciata per caso, eppure nel corso degli anni aveva assunto una dimensione distintiva rispetto alle altre scuole, qualcosa di cui anche in quartiere, al supermercato, o in ufficio quando si parlava dei figli, o la sera al corso di Pilates, non si poteva non fare cenno. Gli insegnanti in particolare, con quei soprannomi sembravano discendere da un piedistallo e, con il ricorso a una dose di buona autoironia, si rendevano più simpatici, accessibili e disponibili. Anche le tormentate sessioni di consigli di classe aperti, quelle dove i docenti si siedono tutti da un lato della classe e i genitori dall’altra, a designare mondi che più distanti non si può, a quella maniera si coloravano di complicità e anche un po’ di buffoneria, così il tempo correva via più veloce, e i dialoghi ne guadagnavano in spigliatezza e cordialità.

Eppure, come s’è detto, Leonardo Correnti continuava a rappresentare una, unica e poco vistosa, eccezione. Ci si sbaglierebbe a pensare che non volesse, che fosse refrattario, o che tenesse a mantenere le distanze. Niente di tutto ciò. Non avrebbe avuto nulla in contrario, né tuttavia ambiva a portarne uno. Non ci faceva caso, così come gli altri non facevano caso a lui. La ragione per cui Correnti  era privo di un soprannome era molto semplice: egli navigava su rotte talmente nascoste, che i radar della comunità scolastica neanche lo intercettavano.

C’era, ma come se non ci fosse. 

Camminava per i corridoi, si sedeva a scrivere qualcosa in sala professori, piluccava una merendina dal distributore automatico – solo in momenti sideralmente distanti dalla ressa dell’intervallo – oppure si perdeva dietro alle costole dei libri, negli scaffali della biblioteca, ma senza che nessuno badasse a lui. Si potrebbe dire che Leonardo Correnti fosse un uomo trasparente, o che sfuggisse come una saponetta alle dinamiche della vita scolastica. E la cosa non gli creava, almeno in apparenza, alcun tipo di problema.

Nessuno si accorgeva di lui, così come lui con la suo vista carente, faticava ad accorgersi di tutti gli altri. 

Persino la sua miopia non era, per dir così, convenzionale. Certo gli occhiali li portava, di quelli dalla montatura di finta tartaruga, corvini e ampli, stagliati sulla sua carnagione pallida, con le lenti spesse, e che in effetti deformavano i bulbi oculari, facendoli più grandi e sporgenti di quanto non fossero. Ma non era quello. Ci vedeva effettivamente male, ma più che la miopia, o i perimetri delle figure sfalsati dell’astigmatismo, era affetto da un male – e quando diciamo male, lo intendiamo solo per la quantità di cose che poteva fare con, potremmo dire, una minore efficacia – assai meno convenzionale: sembrava che le immagini, capovolte sul cristallino e di lì mandate dal nervo ottico fino al lobo temporale, arrivassero con un consistente ritardo rispetto alla capacità percettiva delle persone intorno a lui. Più che “orbo” poteva sembrare stupido, e non lo era affatto (e nessuno che lo conoscesse men che superficialmente lo avrebbe mai pensato). Più che le diottrie sembrava mancargli costantemente il tempo. Il tempo di elaborare le immagini, quello di classificarle, quello di farne qualcosa prima che svanissero.

Un processo similare accadeva al suo udito. Tirando le somme si sarebbe potuto dire che fosse “mezzo sordo”, ma  nuovamente ci si sarebbe allontanati dal bersaglio, perché i suoni giungevano ai suoi padiglioni auricolari in un modo differenziato, a seconda della frequenza, più che della intensità o la distanza. Per cui poteva accadere che fraintendesse le parole della persona che gli parlava a meno d’un metro, e che altresì inchiodasse il responsabile di un bisbiglio pronunciato sommessamente a una decina di metri, nella confusione più totale. Gli effetti – per esempio in classe – di quella difformità sensoriale potevano essere comici, almeno fin che non venivano digeriti dalla opulenta tirannia della routine che finisce per livellare in basso ovunque le eccentricità di ogni comportamento umano.

Il tatto e il gusto, invece, erano normali, per quel che può valere questa parola. Sopravvalutata il più delle volte, eccetto che non vi si voglia indicare una forma di adeguamento, anche forzoso, alla collettività. Ma se ciò si limita ad avere un significato circoscritto quanto alle virtù sociali, poco poteva incidere se riferita alla dotazione sensoriale con cui affrontava la quotidianità e le sue battaglie. Cosicché il suo tatto dapprima, e il gusto poi, a furia del sottoutilizzo si atrofizzarono, allineandosi agli altri sensi, e perse col tempo il gusto di accarezzare una giacca di velluto, o quello di ordinare un piatto sofisticato al ristorante. Non ne traeva il giovamento ragionevolmente atteso.

Con l’olfatto invece aveva un rapporto drasticamente diverso. La capacità di percepire profumi e odori è, tra i cinque, il senso più primitivo, meno conformistico e di conseguenza, meno socialmente rilevante; il che può rappresentare uno svantaggio, o un orpello insignificante, col metro con cui si misurano, per esempio, le carriere di successo, mentre aveva assunto una grande portanza nel sua interiorità, come vi avesse reperito una forma di compensazione, nascosta e flebile, ma tenace al contempo. Quando gli capitava di entrare in un grande magazzino, era capace di passare ore – solo che si sentisse sufficientemente invisibile, che non ci fosse nessuno nei paraggi, ma anche che non si accorgesse di una telecamera di sorveglianza troppo insistente – a sprigionare effluvi di profumo sui tester di carta, sul palmo delle mani o sui polsini della camicia, elevandosi in una separazione mistica per interminabili minuti. Indifferentemente quelli maschili quanto quelli femminili. Aveva negli anni creato una tassonomia complessa e articolata della maggior parte delle fragranze reperibili in commercio, aggiungendo mano a mano quelle che lo stilista francese o l’azienda di indumenti sportivi lanciava, di anno in anno. E gli archivi erano tutti nella sua memoria. Come si diceva, a interessargli non era lo status sociale, o la performazione della sua personalità, che diventasse di successo, o più seducente nei confronti dell’universo femminile, oppure come strumento di potere. Tutto il contrario, anzi. Era sedotto dai profumi, travolto, annientato dagli aromi i quali avevano il potere di strapparlo al presente, così difficilmente arrancato, e proiettarlo in un adesso separato, selvatico e inesplorato. Ciò che otteneva dall’apertura di un flaconcino era più simile a ciò che per chiunque altro avrebbe richiesto un biglietto aereo, uno spostamento lungo e faticoso,

Ancora occorre una precisazione, perché non si trattava di fuggire dal presente, ma una sua trasfigurazione, tanto che nel luogo dove si recava, non vi giungeva attraverso l’immaginazione, ma per una strada secondaria del senso. Dopo avere spostato, e usato con circospezione, decine di boccette, non le comprava mai. Non per pitoccheria, tuttavia; semmai il mancato acquisto era per tutelare l’integrità, così come avrebbe trovato osceno (anche peggio di osceno) ricordare un luogo dove si è stati con un magnete sul frigorifero, o un adesivo sulla valigia. Le poche volte che dovette tradurre in un acquisto uno di quei momenti, a causa dello sguardo seccato di una commessa, poco propensa ai voli pindarici della percezione e molto più prosaicamente rivolta alle boccette che – per quanto lui ne facesse un uso assennato – avrebbe dovuto riporre in ordine, prendeva uno dei profumi, e lo faceva incartare in una confezione regalo. La quale finiva ineluttabilmente sul pavimento di legno chiaro del guardaroba. Nessuno l’avrebbe scartata. Non c’era chi avrebbe ricevuto il dono.

Quarantanove anni, divorziato, Leonardo Correnti, aveva una vita che assomigliava fin troppo ai resoconti che i suoi occhi e le orecchie gli consegnavano. Quando, puntuale come un impiegato svizzero spalancava la porta di una classe, i suoi studenti lo aspettavano, seduti sui banchi, a parlare di cose a distanza siderale dal mondo della scuola. E non avevano particolarmente fretta di sedersi dietro ai banchi. Non si sentivano minacciati, e lui non faceva nulla per sembrare minaccioso. Non serviva, oltre che non sarebbe stato credibile comunque. La puntualità, così come un rigore esagerato in ogni tipo di consegna si fosse assunto, era l’unica deroga che si poteva individuare a un aspetto trasandato, ma si trattava più di una forma di compensazione che pignoleria. Come se ogni cosa, piombando nel suo universo percettivo con un consistente ritardo, lo facesse propendere ad agire in anticipo, così da ottenere un affannato pareggio.

Non aveva avuto figli, sebbene non si trattasse di una scelta, ma di una conseguenza del suo modo di vivere. 

La stessa Marcella – colei che in un afflato, vuoi di ingenuità, vuoi di quel tipo di generosità che si affievolisce nel corso degli anni e che spegne le speranze coltivate senza che riescano a mettere radici – aveva perso interesse per lui prima di prendere seriamente in considerazione l’ipotesi di averne uno. Non era stato un amante particolarmente focoso, e lo sapeva; ciò non perché gli difettassero pulsioni e passioni quanto, come forse si sarà immaginato, perché queste tendevano a manifestarsi in lui, e conseguentemente alla sua partner, con un ritardo che dava spazio a ogni tipo di ritrosia e raffreddamento, cosicché lo stesso principio del piacere gli s’era atrofizzato addosso. 

Perciò non aveva biasimato la povera Marcella, le aveva concesso il divorzio più rapido e indolore di cui si fosse avuta mai notizia e, successivamente, aveva smesso di cercarsi una compagna, poiché l’amore sarà pure sinonimo di sacrificio, ma era altresì certo che donne vocate al martirio non ne avrebbe trovate più. Né si riteneva in diritto di ingannarle.

Del quadro che abbiamo tinteggiato emerge spontanea una parola, handicap, che non rende giustizia al professor Correnti. Certo il sostantivo “ritardo”, ancorché epurato fin all’eccesso dalla lingua italiana da tutte le circonlocuzioni che vi si aggrappano, quando applicato alle persone, è forse la peggiore delle disabilità, quasi a sovrapporsi in ciò cui si designa. Ma questa è solo una faccia della medaglia, potremmo anzi dire che si tratta della sua dimensione sociale. Vista nella prospettiva interiore, si presta a più di una sfaccettatura. 

Intanto era l’interiorità in quanto tale, e la gemella memoria, non diciamo a giovarsene poiché non è di un giovamento che parliamo, ma a risultarne arricchita. Tutta quella congerie, l’enorme patrimonio sensoriale, che compariva alla sua coscienza con il consistente ritardo di cui parliamo, vi arrivava in modo tale che le combinazioni così originate, vi permanessero per un tempo indefinito. Non vogliamo dire che Leonardo Correnti “ricordasse” le cose che alla fine vedeva, o non solo quantomeno; ma che il ritardo medesimo le ricombinasse in una serie di disposizioni, trasformando e collegando cose che lavorando a velocità normale, non avrebbe potuto. Come ombre cinesi che, al posto si svanire, lasciavano tuttavia una traccia flebile e duratura sulla parete. Quello dei profumi è un esempio perfetto: ciò che vi reperiva era molto diverso, più intenso e profondo, rispetto a quanto ciò che cercava chiunque altro; è così era anche per o suoi “sensi ritardati”: le percezioni, raggiunto così faticosamente il territorio dell’ipotalamo, vi si depositavano come una nevicata copiosa, leggera e soffice, persistente e tenace non solo quanto alla permanenza, ma soprattutto, alla capacità di trasformare gli oggetti dal suo ingresso in poi. Perché una volta dentro questi gli appartenevano più di quanto non si possa dire per molte altre persone.

Analogamente a un uomo che rimiri un panorama sotterrato dal neve, dove gli altri vedevano alberi e case, Leonardo Correnti s’era abituato alla distorsione temporale dei sensi, e a misurarsi con qualcosa di inaccessibile per coloro con cui interagiva. E se il contrappasso era la solitudine, la solitudine aveva smesso di pesargli da tanto tempo. Non tuttavia un solipsismo autistico, come sarebbe facile e immaginarsi; egli si sorprendeva della maggior parte delle cose, persino quelle destinate alla ripetizione quotidiana, ma il loro ingresso nella coscienza veniva attutito da un presentimento dovuto proprio alla divaricazione percettiva: quella reale e quella differita, appunto. Come un avventore al ristorante che ordina le stesse pietanze a due tavoli differenti, cosicché sbocconcellando i piatti giunti al primo, sa cosa aspettarsi quando il cameriere apparecchia il secondo.

Per esempio il professor Correnti sapeva perfettamente che sarebbe invecchiato, anche se non era in grado di dire quando ciò sarebbe accaduto. Bella forza, si potrebbe replicare, tutti sanno che invecchieranno. Ma non è del tutto vero, o certo non è vero nel senso in cui lo percepiva lui. Della sua età si è già detto, ma curiosamente non dimostrava i suoi anni. Come gli stimoli del mondo circostante lo raggiungevano dopo una pausa consistente, così era stato per il tempo che, come un parente lontano, lo veniva a trovare di rado più che potesse. Non invecchiava oppure, come sarebbe più corretto dire, invecchiava più lentamente. La sua pelle era liscia e glabra, i lineamenti tenui come quelli di un ragazzino, i capelli d’un nero corvino, senza che nebbie e lanugini avessero provato di avvicinarsi, e le uniche rughe presenti sul suo volto erano o quelle di espressione – come quella di condivisione che assumeva durante ogni dialogo ravvicinato, dovuta alla mancata comprensione di buona parte dei contenuti e della mancanza del coraggio necessario per esporre il problema, finendo per pronunciare le fossette e gli zigomi del suo volto  – oppure l’equatore che marcava due aree perfettamente distinte sulla sua fronte, dovuto alla sua natura, all’attitudine di elaborare e rimuginare ogni cosa; come una “vacca del pensiero”, egli attingeva alla greppia dei sensi col ritardo che abbiamo qui descritto, ruminando i contenuti per mesi e mesi, a prescindere dal valore o le effettive conseguenze. E la ruga sulla fronte era il confine visibile che la sentinella aveva di continuo attraversato, indecisa su quale dei due lati presidiare.

Anche gli spessi occhiali, di cui s’è detto, non potevano essere considerati un segno di vecchiaia, perché li portava così dalla prima media. Persino l’astigmatismo e la miopia non gli avevano messo fretta. Eppure persino per lui la sabbia nella clessidra continuava a incedere nel suo processo irreversibile. E ne aveva una coscienza lucidissima. Ma una cosa è il sapere, privo di ogni connotazione emotiva, e un’altra sarebbe stata quando se ne fosse capacitato veramente, quando avrebbe “sentito” interiormente che la quota più importante della sua esistenza fosse oramai alle spalle, e che una serie consistente di traguardi non sarebbero più stati alla sua portata, sarebbe accaduto improvvisamente. Ecco quindi il miglior esempio, finalmente, di cosa consistesse il suo ritardo percettivo. Egli conosceva in anticipo qualcosa di cui avrebbe avuto consapevolezza solamente molto, molto tempo dopo. Il “piatto della vecchiaia” potremmo dire non era mai mancato a uno dei suoi due tavoli, così che quando sarebbe arrivato al secondo, avrebbe saputo esattamente di cosa si trattava.

Non sapeva quando, ma era ragionevolmente consapevole di come, un giorno, gli sarebbe successo. Forse sarebbe accaduto sul tram, uno di quei vermi arancioni che bucano la polpa della città, oppure nel corridoio davanti la sala professori, oppure ancora nel tragitto pedonale consueto, tra il cubicolo ove abitava e il mercato rionale dove si recava con la sportina ripiegata in tasca e ne tornava con lo stretto indispensabile – era inevitabile che avvenisse in un contesto famigliare, perché solo le difese abbassate, solo un luogo dove la soglia di attenzione fosse stata inferiore avrebbe fatto scattare la trappola -, avrebbe scrutato uno sconosciuto per un po’, senza saperne la ragione, con vorace curiosità. Sarebbe stato un uomo – difficile una donna – approssimativamente della sua età. Ne avrebbe soppesato particolari, dettagli della pettinatura, i tendini del collo pronunciati, o peggio ancora non gli sarebbe sfuggita la folta peluria delle narici. L’avrebbe osservato sollevare gli occhiali, e scrutare con puntiglio le voci di uno scontrino. Avrebbe guardato la polo slavata, il colletto floscio per una stiratura approssimativa, la pelle escoriata del petto. Avrebbe annotato i pantaloni abbondanti, dal cavallo basso, con le cuciture ben visibili, le pence o i passanti lisi, e probabilmente si sarebbe soffermato sui mocassini consunti, indossati quasi certamente senza calzino.  O, peggio, con uno di quei calzini invisibili. L’avrebbe detestato, sicuro. Di più, anzi; l’avrebbe odiato di una visceralità onnipotente, con ogni fibra del suo essere. Poi sarebbe accaduto un passaggio successivo, dovuto al non capacitarsi di quel risentimento. E poi sarebbe accaduto l’inevitabile. A un tratto uno di quei dettagli, meglio anzi, un solo dettaglio contenuto come scatola cinese dentro quei particolari, l’avrebbe folgorato, perché vi avrebbe riconosciuto se stesso. Quell’uomo disarcionato, che aveva oscenamente valicato la soglia tra la maturità e la vecchiaia, altri non era che lui. Ovviamente sarebbe stato un momento tragico (nemmeno la doppia temporalità l’avrebbe tutelato da questo), perché avrebbe strangolato, definitivamente, ogni residua speranza di fare altro dal poco che aveva fatto – per quanto poco pensasse sinceramente di poter fare, e per quanto drammaticamente poco sapesse di avere fatto -, di poter essere ciò che non era mai stato, di accedere a un territorio che, per qualche misura interiore, non aveva voluto o potuto.  Era tardi sino per il suo ritardo. Avrebbe anch’egli in quel preciso istante varcato irreversibilmente la soglia tra l’orizzonte di possibilità indefinite e un fronte di recriminazioni e rimpianti per ciò che non era mai potuto essere. Non si trattava della certezza della morte – la cui ingombrante presenza da quel momento sarebbe stata attestata come uno scoglio emerso, squallido e scontroso, da un oceano limpido e appiattito fino a un istante prima -; non aveva paura della morte (se non entro una soglia che potremmo definire fisiologica), e non l’avrebbe temuta dopo; lo avrebbe angosciato – e di conseguenza lo turbava adesso – la percezione del gorgo di sabbia che risucchia ogni cosa, quando la metà superiore della clessidra comincia a svuotarsi. La misura del reale, da quell’istante, sarebbe stata una volta per tutte dettata dalle cose che non aveva potuto consentirsi. E, si badi bene, non c’era nulla che potesse fare a riguardo. Non poteva “osare di più adesso per rimpiangere meno dopo”. Perché il punto più drammatico non constava nel numero di occasioni da spostare da un canestro all’altro; neanche dal numero di covoni trascinati dall’aia al fienile asciutto prima delle piogge, ma nel movimento soffocante cui il tempo, attorcigliandosi su se stesso, l’avrebbe costretto a sottostare. Nella lucida anticipazione che Leonardo Correnti aveva del momento in cui si sarebbe scoperto “anziano”, c’era il senso preciso che in quel momento Kairos – il tempo carico di opportunità – sarebbe piombato davanti al suo orizzonte e, nell’atto di abbandonarlo definitivamente, l’avrebbe congelato in una diapositiva unica, sottraendogli la forza propulsiva – vera o apparente, non importa – che l’aveva condotto sino a lì, e che non l’avrebbe più condotto da nessuna parte. Da quel momento nessuno avrebbe più potuto spacchettare i doni sotto l’albero, non sarebbe più accaduto nulla, e il contenuto dell’involucro temporale sarebbe divenuto talmente rigido che anche il contenitore, per sua natura dinamico, avrebbe presto cominciato a lacerarsi. Non si trattava, lo rimarchiamo, che in un dato momento si giungesse davanti a un baratro, ma che il movimento normale del tempo, giungesse allo stallo definitivo. Quello era il baratro.

Il che ci porta a due conclusioni, una palese, valida come una vera e propria “legge del tempo” e l’altra meno ovvia – cui però un lettore attento non sarà sfuggita -, che per quanto ne sappiamo potrebbe valere esclusivamente per il professor Leonardo Correnti. In primo luogo si può dedurre che la dimensione “cairotica” dello scorrere degli anni, altro non è che la coscienza medesima; ciò ci porta a un corollario quasi intuitivo, ovvero che il tempo risulterà tanto più semplice da vivere, quanto alla sua dimensione orizzontale, quanto meno coscienza se ne arriverà ad avere. Questo comporta tuttavia un gigantesco paradosso, ovvero che la coscienza, in quanto strumento unico con cui testare e attribuire significato al tempo, ne rappresenta anche un capillare molto fragile, perché laddove l’uomo afferma un significato al tempo, e alla realtà tutta, si espone enormemente al rischio della sua vanificazione.

Guai all’uomo che avesse il senso effimero dello scorrimento del tempo davanti a sé, perché si troverebbe costantemente nella condizione che si preannunciava al professor Correnti. E tuttavia – ecco quindi il secondo  scontato passaggio – quell’uomo esisteva, e aveva un nome e un cognome: Leonardo Correnti, appunto. Infatti il destino non solo lo attendeva per un agguato a un crocevia del futuro, ma egli ne era perfettamente consapevole già nel presente. 

Così Kairos si comportava, almeno con lui, come uno spiritello fastidioso, aggiungendo alle due una terza dimensione: l’attesa. La certezza anticipata della ineluttabilità del tempo, non gli toglieva la possibilità di una dimensione routinaria. Viveva cioè senza il terrore della spada di Damocle galleggiante sul suo capo; anzi, una quota di gesti ordinari e ripetitivi erano per lui ancora più necessari che per chiunque altro. Non perché gli consentissero di obnubilare il tragico rendez-vous (quanto a questo non aveva alcuna speranza), ma per stabilire una “vivibilità del reale” senza cui sarebbe stato buio pesto anche a mezzogiorno. Era uomo vivo, sebbene in modo poco appariscente, e lontano dai radar dei suoi simili. I suoi piccoli gesti – la scuola, il mercato rionale, i mezzi pubblici saturi di carne sui quali saliva – erano l’attestazione di un esistere resiliente, come una cultura di batteri, anni dopo, consente alla vita di vincere nuovamente l’ardua battaglia con la morte, dove un vulcano ha vomitato le sue viscere. Piccole cose, ostinate, ma imprescindibili.

La terza dimensione del tempo si era in lui sviluppata, per dir così, come una introflessione e quasi – l’uso della parola è da intendersi come eccezione normativa – un capovolgimento; come un alberello, apparentemente gracile, che sviluppa una parte delle radici alla luce del sole e una parte della chioma sepolta nell’argilla. Uno scherzo della natura, si potrebbe pensare, uno sgorbio; alcuni insegnanti del suo liceo dovevano esserne convinti, e certo lui non faceva nulla per dissuaderli, e a valicare i fossati che circondavano la sua inquieta ed esitante figura, limitandosi a un fugace saluto davanti la macchinetta del caffè, oppure lo scambio tiepido di documenti durante un consiglio di programmazione. 

Beninteso che essi non fossero tenuti a vedere oltre – chi mai potrà essere costretto a vedere un’oncia oltre il visibile di qualsiasi altra persona? -, eppure ciò che, così, si perdevano, era molto. L’alberello rovesciato  che abbiamo scelto come esempio, non è un caso, perché le radici rivolte al cielo, scagionate dalla fotosintesi, servivano ad acquisire una misura profonda dello spazio circostante; e ancor più il fogliame compattato sottoterra che consentiva ai suoi sensi, così affievoliti quanto alla capacità di carpire il mondo circostante, si torcevano tutti verso l’interno quando si trattava di stabilire colori e significato del suo, a questo punto ricchissimo, universo interiore. Non riuscendo a protendersi verso il fuori, aveva trovato un sistema singolare per trascinarne una parte al proprio interno. Poteva godere in modo radicale di cose che il resto del mondo, avrebbe giudicato irrilevanti. Dei voli pindarici nel reparto profumi abbiamo detto, ma si possono fare altri esempi, concernenti l’olfatto come altri invece a esso slegati. Un nuovo ammorbidente, saggiamente dosato nel bucato, poteva infondergli un’energia insospettabile per una settimana; una melodia – intercettata casualmente sui titoli di coda d’un film melenso – turbarlo fino al pianto profondo. Le domeniche mattina, specie quelle di autunno, amava alzarsi non troppo tardi, e rimanere a letto ancora un po’. Apriva i vetri della sua camera, ma lasciava chiusi gli scuri, dai quali trapelava tuttavia l’opalescenza del giorno; stava lì, sdraiato, con gli occhi ben aperti, a fissare il soffitto. Folate di aria fresca si affacciavano nella stanza, e lui le accoglieva sulla pelle. E poi ascoltava, i rumori del quartiere che, sonnacchioso, prendeva progressivamente vita. I bambini recalcitranti trascinati a messa, le donne anziane che, sebbene non distinguesse le parole, gareggiavano sugli acciacchi, il vento e la luce – sì, anche la luce può essere ascoltata – e poi l’uomo vecchio, che non vide mai (o almeno non lo riconobbe), la cui voce, gutturale ma svilita, gli era tuttavia familiare: “Pepe, Pepe, vieni qui.” S’era fatto l’idea che fosse un volpino nero, tarchiato, con le zampe rigide e un occhio sbilenco. Poi venivano i rintocchi della campana, lenti e rassicuranti, promemoria delle cose del cielo. E si sentiva felice; immotivatamente si potrebbe pensare, e molti l’avrebbero pensato se solo un po’ di quella felicità fosse trapelata nelle sue espressioni, nelle parole o nei gesti (una ragione in più per tenere tutto dentro); sciocchezze, cose piccole, ecco che avrebbero pensato. Ma la verità è che talune cose sono grandi non perché vengono amplificate dalle anime separate, ma nonostante tutte le altre le ignorino; dimensioni la cui effettiva portata, per un preconcetto, si impedisce di godere. Non lui; non Leonardo Correnti, il quale si riteneva piuttosto un privilegiato, un monello che sotto a una staccionata trova un pertugio invisibile, l’accesso a un mondo segreto, e che segreto doveva rimanere. Un segreto che aumentava il proprio valore ogni giorno che riusciva inviolato.

Amava la pioggia, sebbene un rovo di protocolli e convenzioni, non gli consentisse di goderne quanto avrebbe voluto – avrebbe fatto specie vedere un uomo di mezza età, ben vestito, che cammina senza un ombrello sotto a un acquazzone, senza affannarsi per guadagnare una pensilina, o il riparo di un cornicione. E amava ancor più il vento. Purtroppo a Milano è un evento straordinario, perciò si doveva accontentare dei pomeriggi, facilmente primaverili, in cui il cielo viene sgomberato, come una cantina dimenticata, e al suo posto compare una lastra di pastello blu, liscia e levigata. Adorava quelle poche giornate poteva muoversi per la città, vedere le insegne dei negozi sbatacchiate, le tende delle finestre dimenticate oscillare, come i paramenti di un confessionale mentre accolgono un peccatore.

In autunno invece amava la nebbia. Quella non mancava mai, sebbene nel corso degli anni, per poterne godere come aveva in mente, doveva uscire dal territorio comunale – troppo traffico, luci, insegne luminose – e spostarsi in alcune propaggini dell’hinterland. Quelle arano le giornate perfette per i miopi. Aveva visto un documentario, tempo prima, sulla resilienza. Vi si diceva che persone “normali”, che non avessero particolari doti, anzi, addirittura i depressi gravi, capitava che nel momento di circostanze eccezionali, trovavano non si sa come, risorse sorprendenti, inconcepibili quasi. 

Inevitabile che si immedesimasse. Ebbene, in quelle giornate si sentiva bene, perché la nebbia era, per i miopi, come la resilienza durante le catastrofi; diminuiva il gap. All’opacità delle cose lui c’era abituato, era il suo pane quotidiano, perciò quando il cielo calava le cataratte, poteva giocare in casa. Questo non l’aveva sentito nel documentario. Era roba sua. Non l’avrebbe sfoderata in una conversazione, ma averci pensato bastava a renderlo orgoglioso.

Aveva scovato un paesino, tra Milano e Crema – per raggiungerlo doveva percorrere la Paullese per una ventina di chilometri, andando poi a conficcarsi tra i rettangoli coltivati -, non particolarmente bello ma caratteristico e, cosa decisiva, deserto praticamente ogni momento dell’anno, fatta la necessaria eccezione dei braccianti e agricoltori che l’attraversavano di continuo. Ai bordi del paese c’era una specie di ristorante, lungo e stirato sulla esile striscia d’asfalto. D’estate era un continuo corteo di trattori e altri pesanti macchinari; gli piaceva fermarsi all’esterno, e trovarvi oltre agli immancabili e sparuti anziani, ai quattro lati di una tovaglia lurida a scambiare briscole e bestemmie a ogni ora del pomeriggio, mentre sull’imbrunire arrivavano gli uomini più giovani, di ritorno dai campi, coi capelli umidi della doccia e la pelle del volto arrossata, dopo le ore passate sulla mietitrebbia. Appena dall’altra parte della strada

Seduto, beveva un tè freddo – che la signora dietro il bancone doveva avere preparato la sera prima – versato da un bottiglione da vino. Da principio la donna lo aveva guardato con diffidenza, e questo aveva gli provocato un simmetrico disagio. Ma alla fine s’era abituata. I tavoli fuori dal locale erano, persino per frequentatori sporadici, i meno ambiti. Perché il sole vi picchiava tutto il giorno, e non appena s’abbassava, con le mattonelle ancora incandescenti, si potevano vedere dai campi accorrere orde di moscerini, piombini densi di un fucile da caccia, per l’adunanza del fastidio. Ed egli pativa entrambe le cose, tuttavia essere lì, con il quotidiano sportivo sbiadito – fingeva soltanto di leggerlo -, lasciato da un altro avventore, lo colmava di una insospettabile gioia. La strada, i trattori sbuffanti gasolio incombusto, la calura, il profumo acre delle foglie di sorgo, oppure quello rancido dei pomodori caduti da un bancale e spiaccicati dalle ruote di decine di auto, tutto questo lo faceva sentire partecipe di un Tutto che si srotolava accanto a lui, che lo raccoglieva con le sue spire viscose trascinandolo in una vibrazione successiva di esistere. Cristo quanto era fortunato. Quante cose erano non solo accessibili a un uomo dai sensi feriti come lui, ma c’erano perché gli fosse consentita una vitalità, che altrimenti non avrebbe potuto. Una vita che gli esplodeva nel cuore, e di cui difficilmente avrebbe saputo raccontare a qualcuno. Ma non importava poiché raccontare non era il suo mestiere. Perciò la segretezza di quel piacere, così inconsueto e distante dagli accessi della moltitudine rimaneva preservata, non dall’egoismo – non era egoista – ma dalla scarsa credibilità dell’unico testimone.