La Consolina

I cani e i santi

Wof, Wof. Qualche minuto di silenzio cui seguiva un’altra salva, wof, wof! Il vecchio Fedro aspettava che qualcuno passasse davanti al cancello tutto il giorno, con la cocciutaggine che gli uomini dovrebbero invidiare ai cani. Non era cattivo e manco ci assomigliava.  Ma abbaiare era come un dovere, e non si sarebbe sottratto.

Il tempo tuttavia si srotolava come un tappeto cencioso, e trascorrevano a quel modo ore senza che passasse anima viva, così il macilento spinone finiva per prendersela con tutte le cose che si scuotevano distanti – i panni stesi della vedova Martucci, o le imposte lucide del Floriano -. Ma, inevitabilmente, alla fine prendeva ad accontentarsi, con minor convinzione, di quelle che si muovevano solo nella sua capoccia; un’ombra, un riflesso, un alito di vento scampato ai viottoli. A un tratto, però, drizzò le orecchie e chiuse la bocca, ché ci sentiva meglio senza sbavare, e squadrò cogli occhi stretti il muretto del municipio, indeciso se abbaiare in anticipo e far prendere uno spavento al forestiero, oppure aspettare per vedere se arrivava qualcuno di conosciuto. 

Pochi secondi e riconobbe uno scalpicciare rapido e asimmetrico; il cagnaccio s’avvicinò alla rete, la testa docile e la coda bassa che s’agitava come un metronomo scassato per ottenere qualche carezza o un tozzo di pane, ma si sarebbe accontentato di una parola di zucchero. Era di poche pretese il buon Fedro. Tuttavia non era la giornata giusta e, quando la sagoma femminile tozza ed energica gli sfilò davanti senza rallentare, deluso si arrese, tornando a sdraiarsi sul fianco, annusando appena una foglia secca che dall’ultima volta, chissà, poteva anche essere diventata una galletta. Ma niente. Così tornò ad assopirsi nel sonno troppo sognato dei cani.

La donna non l’aveva degnato di uno sguardo. Di solito almeno una parola riusciva a lasciarla giù, ma quel giorno passò come una freccia, che quasi s’era scordata la gamba più corta. Era corpulenta e tarchiata tuttavia agile, con le braccia flaccide che s’agitavano ai fianchi, come bielle di una locomotiva, tipo quella buffa disegnata nell’atrio della scuola materna. Che poi di bambini alla scuola non se ne vedevano da secoli, e il trenino buffo disegnato s’era immalinconito, sbiadendo fino a scomparire o quasi. Da quanto tempo non c’era stato più un monello? Neanche le veniva in mente. E mica era giovane, oramai era vicina a contare settanta primavere, sebbene dimostrasse ancora una vitalità sproporzionata. Non fosse stato per la zoppia avrebbe ruzzolato su e giù per i viottoli del paese come un pischello che gioca a Tela. E anche col piede offeso, finiva per farlo molto più spesso della maggior parte dei compaesani.

No, che non c’aveva tempo per Fedro. Una giornata così… E dire che quando era scesa aveva in mente di chiedere a Gustavo il salumaio, un osso di porco – e lo sapeva che nel retro teneva quelli più succosi per il Labrador del Sindaco – ché lo vedeva sempre più smagrito. Avrebbe addirittura insistito, litigare quello no. Non litigava con nessuno, aveva un cuore buono. Ma aveva incontrato la Severina, vicino alla bottega con quella notizia – e che notizia! -, perciò aveva tirato su il rognone prenotato il giorno prima, e due carote per la cena, ché anche la spesa lunga doveva aspettare. 

Gli occhi, piccoli e scuri, brillavano di febbre curiosa mentre gli sbalzi del selciato si propagavano sulle guance come schiaffi sulla gelatina mentre svoltava per l’Asinera, che menava dal paese a casa. La Consolina non rallentò neanche per la pendenza, sebbene quando arrivò nel punto dove il sentiero si infossava, e doveva fare attenzione alle pietre grosse, dovette fermarsi per forza. Certo con un bastone avrebbe saggiato i passaggi in anticipo, guadagnando in tempo e velocità, ma non c’era verso di farglielo tenere; chi lo voleva un bastone? Era da vecchi, i vecchi vecchi cioè, e lei non ci si voleva sentire. Glielo aveva suggerito Cornelia, quella che teneva i polli e i conigli, e la stessa Severina. Persone gentili, che si conoscevano da sempre, e che non si facevano beffe della sua camminata. Il sindaco che c’era prima, Tolomeo, aveva addirittura inventato una specie di lotteria per farle vincere, col trucco, il premio ch’era guarda caso un bastone per camminare, arrivato punto dalla valle. Ma lei niente! Aveva accettato perché rifiutare era da cafoni, e non era una maleducata, di litigare non c’aveva il cuore con nessuno, poi però l’aveva portato al fienile e nascosto sotto alle balle, casomai veniva la polizia dei regali a controllare che i vincitori non buttavano i premi. Di invecchiare lo sapeva bene, mica le dispiaceva; anche perché gli anni della gioventù non erano stati poi così diversi da quelli venuti dopo, ma andare in giro con la verga come le arpie di quando era bambina, proprio non poteva. Cattive nel profondo. Superate le grosse pietre, dosando agilità e prudenza, concluse l’ultimo rettilineo che l’avrebbe condotta nell’aia del cascinale. Come di consueto, quando superava il masso che sanciva la fine del sentiero, strillò con la sua voce acidula:

“Va là che sono io, la Consolina.”

Non ricevette risposta, nemmeno l’aspettava, mentre calpestava l’ultimo sterrato che portava all’uscio di casa. Scansò con un gesto ebbro di consuetudine le cinghie di plastica colorata, pendenti tra lo stipite e il pavimento, che facevano ombra e tenevano lontani i calabroni. Col freddo, quando d’insetti in giro se ne vedevano meno, le ritirava dietro il pomello, come fossero i capelli di una smorfiosa dietro l’orecchio. L’ansia di raccontare s’era un po’ placata, affiancata con l’idea dello stufato da preparare, e la preoccupazione che ci fosse del vino aperto – altrimenti doveva scendere in cantina, e non le piaceva, per l’umidità mica i gradini – ma non appena scalzò le scarpe aiutandosi coi pollici e contraendo le labbra con le smorfie di reumatismo, il ricordo della cosa più importante sbucò di nuovo come una marmotta dal suo pertugio.

“Uè, sapessi cosa mi hanno detto giù al negozio…”. Parlò sottovoce, con gli occhi bassi, sembrava un giuramento vendetta, come faceva quando temeva di perdere il filo. Quando si sentì sufficientemente sicura, si rammentò delle altre cose, cercò con gli alluci le pantofole, finite come sempre sotto la stufa spenta, e si liberò della spesa. Dalla borsa di corda sbucò un canovaccio di giornale, flaccido e gocciolante come il cuore che re Davide aveva strappato dal petto di Golia.

“Accidenti!”, bisbigliò mentre contemplava le gocce cupe che l’avevano accompagnata dall’ingresso, certe col segno della scarpa. Un lavoro in più, che tanto ne aveva già pochi, si commiserò soltanto un pochino. Compatirsi era distante dalla sua natura, non meno del bastone lasciato marcire sotto la paglia. Avrebbe potuto lagnarsi della strada che doveva fare fino a quattro, anche sei volte al giorno, che doveva pensare a tutto senza nessun aiuto. E non era più una ragazzina, eh no! Ma non le veniva. La verità era che non voleva nessuno a impicciarsi delle cose sue. Finché ce la faceva, ce la faceva, e poi un posto al Camposanto mica glielo avrebbero negato. Quanto a Santino, beh, non è che ci avesse mai pensato troppo. Dipendeva da lei come un neonato, e che la loro vicenda fosse legata da un doppio filo non era un mistero.

Emise un lungo sospiro – non per la fatica, da cui sembrava immune ma per la sporcizia -, poi gettò il rognone sul tavolo di resina. Abbandonò la borsa di corda sulla spalla della sedia più vicina; tra le maglie grosse si vedevano le carote, preservate chissà come dal sanguinamento.

Prima di cambiare stanza si concesse un piccolo vizio, trasse dallo scolatoio un bicchiere grande, le pareti zigrinate e il fondo spesso, che a guardarci dentro faceva un effetto; poi prese il fiasco incastrato tra la stufa e la parete, lo stappò e controllò che ve ne fosse abbastanza per la cena, poi si versò un dito di liquido nero come il sangue sul pavimento, e lo deglutì d’un sorso. Ma si paralizzò, col bicchiere laconicamente vuoto, pentita con un istante di ritardo, anche se tutto ciò che le venne fu di accompagnarne la focosa discesa con una mano sullo sterno. Gli occhi rotearono senza trovare l’asse giusto, poi dopo l’esitazione, riempì per metà nuovamente il bicchiere. Alla malora se mancava per la cena.

“Ti va un dito di vino?”, domandò con la voce che aveva perso l’acutezza e s’era fatta più melliflua, quasi dovesse venderlo al mercato, “Eh, ti va un goccio?”

Attraversò nella direzione opposta il corridoio da cui era appena venuta, attenta a non calpestare la sporcizia, ignorò l’ingresso e si inerpicò su una scala ripida, comparsa dal nulla. Aveva una tale confidenza coi pioli che lì superò senza dover coprire la sommità del bicchiere con la mano. La levata terminò su un mezzanino di legno cigolante, coperto alla bell’e meglio con un tappetino rosso, dove erano disegnate le greche e i ghirigori persiani – almeno così le aveva detto il Borghetto, quello del mercato – con delle lunghe frange bionde, oramai sbiadite dalle spazzolate e dagli anni. Le travi del pavimento protestarono blandamente, fino che non trovò una piccola porticina. Dovette incunearsi un poco. 

L’arredamento della stanza al piano era diverso da quella da basso, pieno di cose ovunque, come se solo lontana dall’ingresso aveva potuto infischiarsi di tutto e mettere le cose che amava di più. Una specie di segreto che, anche a causa della condizione del Santino, che non poteva vedere nessuno e che non poteva ricevere nessuno, avrebbe fatto meno fatica a preservare. La finestra era aperta, col ramo del ciliegio lì a un braccio, che durante le settimane della raccolta si poteva fare una scorpacciata soltanto sporgendosi. Adesso era pure meglio, perché al posto delle amarene profumate si potevano ascoltare le ciarle delle Peppole e i Lucherini, indifferenti ai curiosi, commentare le frizzanti giornate estive. Per tacere ci sarebbe stata la stagione fredda. A stare in silenzio, ma in silenzio per bene, si poteva vedere anche lo scoiattolo fare un balzo da un ramo all’altro, o arrotolarsi frenetico un seme tra le zampe, cogli occhi sbarrati e le zampe contratte, pronto a svanire al primo soffio. 

Consolina adorava la finestra, e quella stanza, ingombra di oggetti affastellati un po’ ovunque. Il sofà intarsiato di velluto rosso, con sopra i lavori a maglia, pronti da riprendere la sera, il tavolino alto di bambù sopra il quale non aveva ancora trovato il giusto abat-jour, la credenza di legno pesante e scuro, dove erano una decina di Capodimonte, poggiati ciascuno sul proprio centrino, che rappresentavano vecchi o bambini, come ci fosse nulla nel mezzo. Gli anziani potevano passeggiare con le mani nodose dietro la schiena, o dar da mangiare agli uccellini, i secondi compitavano su un quaderno, oppure finivano con le guance arrossate dietro la lavagna per una marachella. Il suo preferito era un bimbo coi pantaloni abbassati, intento a orinare sugli attrezzi del babbo – un martello e una sega – mentre veniva scoperto e si voltava con gli occhi sbarrati di paura. 

Sullo spigolo c’era la pendola a scandire i pomeriggi coi suoi tetri contraccolpi allo scoccare dell’ora, che s’annunciava con un cigolio lagnoso, come quando s’apre un cassetto chiuso da troppo tempo, e poi la scampanio afono, perché da quando s’era ammalato Santino la Consolina aveva pensato bene che non era così importante conteggiare lo scorrere del tempo con tutta quella pompa, e quindi l’aveva imbottito con uno strofinaccio. Di fronte al sofà c’era il tavolo rotondo, col tappeto verde e i fiori blu e gialli, che scendeva fin quasi a terra, così spesso che anche quando Santino l’aveva bruciato col sigaro – uno sbaglio per carità di Dio, cominciava a non stare bene in quei mesi, e ogni tanto gli cadevano di mano le chiavi, o la forchetta –, aveva stabilito di tenerla così, ché un rammendo non si poteva, e di buttarla proprio non se ne parlava. Fece piuttosto un centrotavola tutto nuovo con la maglia, più scuro e fitto degli altri, e ce lo mise sopra, compiacendosi del risultato sin troppo per restare sincera. Ma tanto lì sopra ci stava solo lei, e il suo Santino, perciò alla fine delle otto sedie massicce con gli schienali alti e imbottiti – parevano troni senza re e regine -, sei erano state ribaltate l’una sull’altra, e allineate lungo l’unica parete libera, e infine ricoperte con un lenzuolo uscito definitamente dal suo scopo. Un’altra fungeva da appoggio per il cesto del cucito, coi manici lunghi e le levette con cui s’apriva lo scrigno d’un tesoro. Poiché si trattava davvero di un tesoro, almeno per la Consolina: tutti i suoi aghi, i ditali d’ottone, l’uovo di pomice per rammendare i calzini, i rocchetti del filo colorato, la bobina di quello bianco per imbastire, i nastri e le fettucce, tutte in disordine, a moltiplicarne la ricchezza e la sorpresa ad ogni apertura. 

Sull’ultima sedia, accanto al tavolo in modo che potesse godere la finestra spalancata, c’era un uomo. Stava con la schiena rigida, e la mano sinistra chiusa sulla seduta, come si apprestasse ad alzarsi. La destra invece era poggiata sul tavolo, e tamburellava un morse inudibile, con i polpastrelli  a sfiorare il pianale. Anche la bocca umida, sembrava seguire una partitura segreta, senza sosta. Aveva i capelli bianchi, bianche erano le folte basette che scendevano come ruscelli d’argento intorno a una pietra rugosa. Soffici batuffoli fuoriuscivano anche dai padiglioni e le narici, a compensare il ritiro senile delle cartilagini. Le altri parti del volto erano glabre, rasate con cura di recente, un dettaglio a cui la moglie non avrebbe rinunciato per ragione alcuna. Gli occhi grigi erano irrequieti, e vagavano nel tragitto tra la finestra e la porta alla ricerca di un dettaglio, una spiegazione che tardava a venire. Portava i pantaloni d’un pigiama grigio, di tessuto pettinato, e una giacca militare verde oliva, con le mostrine colorate ancora perfettamente visibili. Faceva contrasto con la divisa un bavaglio di stoffa, sotto il mento, riciclato da un bambino di molto, molto tempo prima.

“Ti ho portato una cosa buona!”, disse Consolina coprendo adesso il bicchiere con la mano per una sorpresa che per lei aveva senso, “Ti va un po’ di vino? Poco poco, un goccio soltanto, che ne abbiamo anche per la cena?”

Spostò il cestino per terra poi, dopo avere lasciato il vino sul tavolo, afferrò con entrambe le mani il trono e, trasse faticosamente lo schienale vicino al tavolo, fino a comprimere il diaframma. Porse così dapprima il bicchiere al marito, quasi potesse brandirlo da solo.

“Stufato!”, rispose la Consolina a una domanda invisibile, non appena ritornò il fiato. Poggiò nuovamente il bicchiere. Da seduta si mise a guardargli il volto con la perizia di un tagliatore di diamanti, ma tutto quello che doveva fare era strofinargli il bavaglino sul rivolo di bava, affrancato del controllo di muscoli e mucose, affiorato sul mento dalla mattina. Il pannolone lo avrebbe cambiato dopo, mica faceva la corsa.

“Eccolo qua, tutto perfetto e asciutto, come piace al suo amoruccio.”

Santino per un attimo sembrò riluttante non per la toeletta, ma del tono puerile con cui era stata impartita, un lieve mugugno di protesta che si perse immediatamente sotto i colpi di tessuto.

“Allora, lo beviamo un goccetto, che fa sangue?” Prese risolutamente l’iniziativa, porgendogli delicatamente, ma decisa, il bicchiere in prossimità del labbro inferiore, aspettando un via libera che non poteva essere dato. Lo inclinò lentamente fino a che, non potendo rinunciare al respiro, il marito cominciò a trangugiare la libagione, sebbene la maggior parte finì su bavaglia e giacca. Poco male, pensò Consolina, gratificata come ogni volta che riusciva a fargli trangugiare qualcosa a prescindere dal grado di imposizione. Posò infine il bicchiere semivuoto. Appoggiò le mani sulle ginocchia al Santino, poi con gli occhi luccicanti, si apprestò a raccontare la clamorosa novità .

“Allora, non hai idea di cosa sono venuta a sapere oggi.”

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