La vita non è così bella…

Milano, 3 aprile, a scuola c’è la cogestione, io sono tra i docenti “a disposizione”. Molto bene. Ho già puntato un incontro sulle neurodivergenze, relatore qualificato. E invece all’ultimo mi chiamano in una classe dove dovrò far vedere “Il grande dittatore”. Beh, peccato per le ND, ma non sono cascato male. Tuttavia quando entro in 1H, c’è uno studente che smanetta e ha già – problemi di disponibilità in streaming, immagino – dirottato su “La vita è bella”. Non visto, storco un po’ il naso. E’ vero non mi è mai piaciuto; poiché tuttavia non riuscivo a focalizzarne il motivo, mi ero obtorto collo inserito nella schiera di quelli che: “Sì, non è il mio preferito ma…”. Ma un corno. Oggi ho capito molto meglio il motivo del mio disappunto, nonché della ragione per cui Benigni non è e non sarà mai Charlie Chaplin (anche se lui ha passato la vita – artistica – a tentare di convincerci del contrario). La comicità più nobile riesce sempre a mescolare simbolicamente – syn ballein, “tenere insieme” – gli aspetti più grotteschi con quelli struggenti, la farsa e la tragedia.

Mi sovviene un passaggio di “Questi fantasmi”, di Eduardo De Filippo, dove l’ingenuità del protagonista viene contrapposta al cinismo del tradimento coniugale. A un certo punto Pasquale esce di scena con un altro personaggio. Mentre è fuori scena, il tradimento prende forma e giunge quasi all’epilogo, fino a un passaggio dove si prepara la scena dell’abbandono, di un dolore palpabile e imminente che sta per essere, ingiustamente, somministrato. A quel punto Pasquale rientra in scena, con l’amico, mentre agitano gli ombrelli per propiziare i fantasmi che lui pensa infestare la casa. La contraddizione delle emozioni è lacerante, il buffo si allaccia in un istante alla sofferenza indicibile, fermata ancora in istante fuori dalla finestra. E si scoppia a ridere, mentre si avrebbe voglia di piangere. Ecco questa è la vera cifra comica. Edoardo De Filippo l’avrebbe potuta insegnare a tutti, mentre Benigni ne è, io credo, incommensurabilmente distante.


Me ne sono accorto nel passaggio probabilmente più divertente, ovvero quando Guido si offre per fare l’interprete all’SS, nel capannone dove lui e Giosuè vivranno. Per quanto sia comicamente riuscito – non è questo il punto – mi aveva sempre dato fastidio una cosa, che il soldato tedesco non fosse, quasi sicuramente, interpretato da un attore di madrelingua. Ora, mi domando, se metti in piedi una produzione internazionale, cosa ci vuole far fare la parte del tedesco a un… tedesco? Poi ho pensato che probabilmente, all’origine della scelta, c’è un motivo, ed è proprio la necessità di aderire a una stereotipizzazione dei personaggi, affinché portino tutta l’acqua al mulino della comicità costruita e ostentata dal protagonista. Le SS non devono parlare tedesco, devono parlare ridicolo. Il torrente di una tragedia di immani proporzioni qui diventa poco più di un rivolo, rovesciato sull’abnorme dinamo egoriferita di Roberto Benigni. Ci viene raccontato che lui è un padre coraggioso, il quale giunge a rendere buffa persino la camminata verso il luogo ove verrà fucilato; il tutto per preservare la purezza del piccolo Giosuè, di quattro anni, nascondendogli l’orrore del lager. Tuttavia il vero puer non è Giosuè, ma il padre, che non smette di gigioneggiare neanche davanti all’imminenza della morte. Muore senza essere cresciuto.


E purtroppo l’obiettivo viene perfettamente raggiunto. Benigni “copre” con la propria bulimica caricatura la tragedia umana della Shoah – dalla cui violenza, fisica e simbolica, non furono certo risparmiati decine di migliaia di Giosuè -; la copre per il figlio e anche a se stesso, e la nasconde anche a tutti gli altri. La occulta a noi. Non c’è conflitto, non c’è “vero” dolore, se si fa eccezione per la conclusione, calibrata tuttavia in modo nuovamente grottesco. In sintesi si potrebbe dire che “La vita è bella” è una unica insistita e sfinente caricatura; tutti gli altri personaggi – a partire dalla monoespressiva Nicoletta Braschi – sono esclusivamente spalle del mattatore di casa. Infatti le rarissime volte in cui questo esce dal registro farsesco, non è minimamente credibile. Il film è un pretesto, un maquillage, dove la buffoneria del comico ingoia surrettiziamente la tragedia, la rende indisponibile poiché toglierebbe attenzione a lui. Gli spettatori vengono sin dalle prime battute avvisati (il prologo del corteggiamento di Dora è lungo e stucchevole) che non devono aspettarsi altro da questo. Non c’è “un Guido Orefice e l’Olocausto”, ma solo il Gargantua di Toscana che, da istrione consumato, prosciuga ogni centilitro di attenzione su di sé, e su niente altro. Dispiace, ma è un film scaltro, non intelligente.

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