La pesca delle responsabilità

Volevo dire la mia sulla pubblicità Esselunga. Se ho esitato è perché da un lato credo se ne sia parlato troppo, alcune nuance siano state lette come radicalizzazioni, attribuendo talvolta un eccesso d’intenzione che, forse, non c’era. Tuttavia le prese di posizione ci sono state, le contrapposizioni – anche molto dure – altrettanto. E allora eccomi:

Intanto la pubblicità è furba. Scritta e girata molto, molto bene. Gli attori quasi perfetti. La bambina di suo già in odore di Oscar. L’Esselunga dove si svolge l’azione non è il tempio di luce che conosciamo, ma un ambiente più dimesso. La gente che si aggira coi carrelli non è lì a vincere la partita con la vita, non ha vinto al Superenalotto, non è nemmeno in condizione di indigenza. E’ gente che lotta, onestamente, per portare avanti la vita come pensa e come riesce. Di certo è così la madre. La bimba è una bimba qualsiasi, possiede un universo interiore – celato agli adulti -, ed è un po’ malinconica. Ma anche qui non troppo. Non è depressa, lacerata interiormente a causa delle divisioni in famiglia. Riesce comunque a giocare, non è “spezzata”. Tuttavia da questo parziale equilibrio, si ricorda di quando i genitori stavano insieme – entrambi vengono descritti, per cenni, come delle belle persone, perciò è facile immaginare che quella fosse stata una bella coppia – e ne ha nostalgia. E così parte l’espediente della pesca.

Se quella che abbiamo descritto fosse una situazione reale – per quel che vale questa parola – non ci sarebbe alcunché da dire. Beh sì, forse è un pochino idealizzata nelle sue proporzioni, ma che un bimbo possa essere nostalgico della unione dei genitori una volta separati, non ci trovo niente di assurdo. Il punto è piuttosto che questo ci viene proposto in una réclame, dove ciò che nella realtà continuerebbe ad avere un elemento contingente, e rappresentare ESCLUSIVAMENTE sé stesso, una volta trasposto in una clip pubblicitaria, ripetuta ossessivamente, gli elementi caratterizzanti la situazione trascendono la singolarità assumendo una dimensione simbolica; la bambina figlia di separati diventa OGNI figlia di separati, tutti bambini che cioè soffrono silenziosamente e talvolta azzardano manovre di avvicinamento tra i genitori.

E’ un gioco, almeno un po’, sporco. Perché intanto Esselunga ha realizzato questo spot per innalzare ulteriormente i profitti (probabilmente ci riuscirà), e non per riaprire il dibattito sociologico sul ruolo della famiglia nella società italiana. Ed essendo una operazione di marketing, vuol dire che qualcuno a monte ha deciso di ammiccare, questa volta, a “questi” piuttosto che a “quelli”. Va da sé che giochini non troppo puliti sono sempre possibili, per la medesima ragione, anche per operazioni con segni differenti. Manca infatti – sicuramente in Italia – un serio dibattito non sulla famiglia (quello ha stufato), ma sul ruolo della pubblicità e del marketing, sulla capacità di comprimere le scelte e di ridurre i margini di manovra delle persone che fanno la spesa, devono cambiare automobile, decidere un profumo, scegliere un distributore cui rifornirsi. Lo sintetizzo meglio: la pubblicità serve, oserei dire tautologicamente, a ridurre gli spazi di scelta dei consumatori, e mai il contrario. Questo sì sarebbe un dibattito interessante ma, poiché investe interessi troppo alti e remunerativi, è probabile che non avverrà mai.

Mentre il dibattito sulla unitarietà delle famiglie e e la libertà dei soggetti invece imperversa come sempre. Leggevo ad esempio su Facebook ciò che ha scritto un mio grande amico, il quale – anche, ma non solo perché divorziato – criticava in modo perspicace appunto la scelta di girare uno spot simile. Una critica che, sia chiaro, condivido fino in fondo. Ma la cosa che mi ha colpito di più è stata una replica, suppongo di un conoscente cattolico, al suo post. 

“Oddio oddio uno spot Esselunga mi ricorda che il divorzio dei genitori fa soffrire i figli! Come osano ricordarmi delle mie responsabilità?”

Niente di particolarmente intelligente o perspicace, ma un tipo di posizione che vedo, estremamente diffusa in quel mondo, la quale si fortifica con l’inerzia della cose (presunte presuntuosamente) ovvie, o persino delle tautologie.

Dire che gli adulti abbiano delle responsabilità nei confronti dei bambini è talmente ovvio, da rasentare la banalità. Ma qui si allude che la responsabilità di non far soffrire i bambini sia quella di evitargli il dolore del divorzio. Ecco la mancanza di complessità. Ecco la facezia. E la conseguenza è l’arroganza. Perché i bambini soffrono – oserei dire comunque – per una serie di cose che vanno molto al di là della separazione dei genitori. Intanto è vero, i bambini hanno bisogno di “continuità”, ovvero quando devono affrontare dei cambiamenti il loro tasso di ansia e di insicurezza cresce a dismisura. Aggiungo che oltretutto questo avviene in un ordine di grandezze disomogeneo. Per esempio un bambino può patire follemente un trasloco, mentre un altro convivere con relativa serenità il succitato divorzio. Questo può dipendere da fattori sia personali e soggettivi, ma anche da altri culturali. Sui primi non posso dire nulla, perché non c’è una ricetta sulla gestione dell’ansia che valga egualmente ogni bambino preoccupato (sottolineo tuttavia che patologie psichiche anche molto serie, come la depressione infantile, molto molto spesso sorgono proprio nelle cosiddette famiglie tradizionali, cui proprio la struttura eccessivamente rigida può favorire; nonché molti bambini possono soffrire di abbandoni pur con i genitori allacciati per tutta la vita).

Insomma la realtà è profondamente complessa, e il desiderio di ovvietà con la complessità, non si accompagna mai bene. I genitori sono certamente responsabili di arrecare il minor dolore possibile ai figli – pensare di esserne tuttavia esenti è di una stupidità criminale -, ma la cosa va articolata meglio. Intanto, in primo luogo, un bambino soffre un cambiamento in misura direttamente proporzionale alla convinzione in lui instillata che il cambiamento sia impossibile, o che sia “male”. I bambini non hanno solamente, fino a una certa età, uno scheletro molto elastico, ma anche una psiche altrettanto fluida e adattabile a contingenze differenti. Se avviene un eccessivo irrigidimento è facile che siano stati proprio gli adulti – quelli di cui si invoca la responsabilità anche a sproposito -. In un mio testo, Un elefante in cucina, facevo l’esempio per cui, se un elefante non riesce a uscire dalla mia cucina è per una duplice ragione. Una palese, l’altra invece sostanzialmente ignorata. La prima sono le dimensioni del pachiderma, e l’altra è rappresentata dall’ampiezza e dall’altezza degli archi e degli stipiti di casa mia. Mutati mutandis, se un bambino non riesce ad accettare un cambiamento potrebbe esserci irrigidimenti e fissazioni, a proposito delle quali la responsabilità dei genitori non si è attivata – per ignoranza o pregiudizio -, oppure ha lavorato in senso contrario a ciò che effettivamente serve al figlio. La vera responsabilità di un adulto non è quella di promettere a un bambino che un cambiamento non avverrà mai, ma che se anche dovesse avvenire, questi ha tutti gli strumenti per poterlo affrontare e gestire. 

Mi piace citare spesso un witz di James Hillman, di cui va ricordata l’origine ebraica, tratto dal suo lavoro Puer Aeternus:

C’è una storiella ebraica, una delle solite barzellette degli ebrei sugli ebrei, che dice: Un padre, volendo insegnare al figlio a essere meno pauroso, ad avere più coraggio, lo fa saltare dai gradini di una scala. Lo mette in piedi sul secondo gradino e gli dice: «Salta, che ti prendo». Il bambino salta. Poi lo piazza sul terzo gradino, dicendo: «Salta, che ti prendo». Il bambino ha paura ma, poiché si fida del padre, fa come questo gli dice e salta tra le sue braccia. Quindi il padre lo sistema sul quarto gradino, e poi sul quinto, dicendo ogni volta: «Salta, che ti prendo», e ogni volta il bambino salta e il padre lo afferra prontamente. Continuano così per un po’. A un certo punto il bambino è su un gradino molto in alto, ma salta ugualmente, come in precedenza; questa volta però il padre si tira indietro, e il bambino cade lungo e disteso. Mentre tutto sanguinante e piangente si rimette in piedi, il padre gli dice: «Così impari: mai fidarti di un ebreo, neanche se è tuo padre».

Questo aneddoto, che può far raccapricciare molti, in realtà è ricco di un insegnamento molto profondo. La fiducia del bambino viene “tradita” (il tradimento è il tema dell’opera) dal padre, il quale così, però, gli impartisce un insegnamento fondamentale: i tradimenti, i cambiamenti (anche radicali) NON UCCIDONO, e possono essere affrontati con la consapevolezza che, se anche papà si è tirato indietro, il bambino è in grado di rimettersi in piedi DA SOLO. Ribadisco: seppure l’esempio sia volutamente paradossale, quel genitore esercita la propria RESPONSABILITÀ di educatore in modo intenso ed efficace. Quel bambino in futuro sarà maggiormente in grado di gestire le delusioni amorose, gli insuccessi professionali e i cambiamenti esistenziali.

Alla bambina della pubblicità ESSELUNGA una cosa gliela possiamo augurare. Che il suo gesto, per quanto carico di ingenuità, abbia “successo” solo se vi sono solide ed effettive motivazioni. Perché se mamma e papà, commossi dal gesto, decidessero di tornare insieme unicamente per quel frainteso “senso di responsabilità”, per il timore che la figlia debba soffrire troppo, allora sarebbero loro a diventare infelici, e prima o poi quella bambina, magari diventata adulta, dovrebbe riscontrare di essere diventata la causa della infelicità dei propri genitori. E questo è un peso che NESSUNO, nella vita, dovrebbe mai portare.