Chi sono io?

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Spesso quand’io ti miro

star cosí muta in sul deserto piano,

che, in suo giro lontano, al ciel confina;

ovver con la mia greggia

seguirmi viaggiando a mano a mano;

e quando miro in cielo arder le stelle;

dico fra me pensando:

— A che tante facelle?

che fa laria infinita, e quel profondo

infinito seren? che vuol dir questa

solitudine immensa? ed io che sono? —

Giacomo Leopardi

 

Ricordo il racconto di un’amica, molti anni fa; la figlia, piccina, un bel mattino, prima di andare alla scuola materna, impegnata nelle quotidiane operazioni di toeletta, piantò lì, come nulla fosse, uno di quegli interrogativi che i genitori di tutto il mondo temono: “Perché io sono io?”

Inutili le schermaglie dialettiche, gli anni di catechesi, i titoli universitari, di fronte alla potenza di una tale domanda. Alla mia amica – donna intelligentissima – pareva di arrampicarsi su un vetro insaponato, e dopo ogni dotta elucubrazione lo scetticismo dimostrato dalla bimba la spingeva di nuovo alla base della parete. Fino a che la sera, tornato il padre dal lavoro, fu coinvolto nella quaestio disputata e rispose, un po’ seccato dalle grane che non era riuscito a lasciare in ufficio, che a quella domanda non sarebbe riuscita a rispondere mai. Curiosamente solamente di fronte a questa conclusione lapidaria, la bimba sembrò trarre sollievo, per niente imbarazzata dal paradosso.

Aveva visto lungo quel padre, perché la domanda delle 100 pistole, non può essere risolta neanche nel lavoro di una vita. E diventare adulti rende, sebbene non automaticamente, più consapevoli, in un territorio dove ciò che si sa è ciò che non si potrà mai sapere, finiscono per sovrapporsi in un modo sbalorditivo.

Ripensavo a questo aneddoto qualche giorno fa, guardando un telefilm – di quelli con le risate aggiunte – dove un bambino, approssimativamente dell’età della figlia della mia amica ai tempi dell’episodio, desidera vestirsi da femmina  prima di recarsi a scuola, allora la zia (i genitori sono fuori causa) dice agli insegnanti che il bimbo stia attraversando una fase di “fluid identity”, e di non preoccuparsi troppo di quella stravaganza. Ora, conosco vaste porzioni del mondo, segnatamente di quello cattolico, che già qui potrebbero sentirsi vibrare i follicoli delle mani.

Ma perché, in fondo? Torniamo alla domanda della figlia della mia amica, a cui possiamo, alla lunga, rispondere con una tautologia – io sono io – oppure riconoscere che l’identità sia liquida tanto quanto quella del telefilm, ovvero che una forma acquisita non ci sia, oppure che non si sia ancora solidificata, e che quindi sia ancora in divenire.

Si potrebbe separare – e le porzioni del mondo cattolico che ho citato già lo fanno – l’interrogativo in due parti, di cui collocarne la dimensione “in divenire” nell’alveo della metafisica, dell’homo viator, l’essere sul percorso del Destino, mentre la seconda parte, pertinente alla cosiddetta “natura” delle cose, che rimarrebbe incollata alla suddetta tautologia, e che quindi non troverebbe alcun giovamento dalle fluttuazioni di identità, quali il volere indossare vestiti da femmina per un maschietto. Il collante tra ontologia e onticità, tra essenza e storicità individuale apparterrebbe alla sfera educativa – educare, educere, tirare fuori – il cui obiettivo, sarebbe esattamente quella di stabilire limiti e confini precisi su “che cosa” possa essere tirato fuori da quel tipo di seme. E certo non si potrebbe indulgere con quella particolare dissonanza, poiché “chi nasce tondo non può morire quadrato”.

Tuttavia questo approccio alla questione identitaria, potrebbe rivelarsi limitato e limitante. Perché un’osservazione fenomenelogica, che non fosse prescrittiva e proditoriamente assertiva, scoprirebbe che la persona è molto più, e molto prima di quanto il desiderio di collocarla in un determinato ruolo non consentirebbe, un processo. Esattamente. La realtà della persona è interamente processuale, e lo è sempre, ovvero non esclusivamente in quella che la tassonomia tradizionale riconosce essere una “età evolutiva” (la cui implicazione con la sfera educativa, tuttavia ci costringerà a fare una precisazione più avanti). Gli uomini e le donne affrontano cambiamenti in ogni stagione della propria esistenza – o vi resistono, talvolta per convenienze più opache e meno univoche di quanto il racconto sociale non consenta – di continuo. In particolare gli oggetti che finiscono per qualificare e contrassegnare l’evoluzione affettiva, si rivelano parziali e provvisori. Più parziali e provvisori di quanto un’antropologia assiomatica ed “euclidea” non vorrebbe consegnarci.

È merito della psicoanalisi, poco più di cento anni fa, l’aver documentato per la prima volta quanto il bambino si affacci all’esistenza con meno certezze, più fragilità e bisogni, di quanto la Grundnorm preesistente non consentisse. Non solo. La psicoanalisi è nata da medici, con finalità terapeutiche, non da filosofi desiderosi di ampliare le categorie della antropologia vigente, e in ambito terapeutico è sostanzialmente rimasta – il che non significa che nel corso degli anni l’abbia profondamente modificata -, proprio a causa del vulnus lasciato quanto alle pulsioni e agli istinti, talvolta, primordiali, e la congerie di sintomi che quella grave  omissione comportava. Senza entrare nei dettagli – non è il compito dello scrivente occuparsi apertamente di psicanalisi – cosa ebbe a scoprire il pioniere della nuova disciplina, Sigmund Freud? Che il bambino, fino allora immaginato come un adulto in miniatura, avesse un processo e fasi di crescita da attraversare. E soprattutto che quelle fasi fossero più spurie e scabrose di quanto l’antropologia apollinea non consentisse. Il bambino scopre se stesso come identità, e il mondo circostante, cercando di divorarlo, portarlo alla bocca, colloca il suo primo esserci quando scopre di poter controllare le proprie evacuazioni, costruisce la propria identità affettiva e sessuale a partire dagli impulsi incestuosi di Edipo ed Elettra, e si afferma cronologicamente come forma di autoerotismo narcisistico – rivolta inizialmente verso di sé – e solo successivamente, attraverso la morte simbolica di Narciso, si differenzia in Altro da sé…

Anche questo è un punto molto importante. Poiché il problema identitario si identifica con la sua processualità, ne consegue – con una coerenza drammatica – che anche la scoperta dell’Altro (o meglio si dovrebbe dire dell’ “altro come Altro”) avviene in un processo, e quindi avviene, se avviene, quando avviene e come avviene. La “non alterità” delle persone che si incontrano in una vita (i figli, i genitori, gli amici, gli amore e i colleghi, o anche semplicemente quel tale che ci irrita sul tram perché parla ad alta voce, al telefono) può avvenire presto oppure molto tardi, in modo completo oppure parziale o provvisorio, oppure potrebbe non avvenire affatto.

Possiamo quindi anche, volendo, postulare un percorso “ideale” nella crescita della persona, ma la quantità di variabili e la dimensione fortemente entropica, rischiano di lasciarne la riflessione, un futile esercizio o poco più. Perché noi non siamo, né saremo mai, “ciò che siamo”, ma imprescindibilmente siamo ciò che diventiamo, che diventeremo e infine ciò che saremo diventati. L’introduzione della dimensione storica della risposta alla domanda su chi siamo, descrive un percorso estremamente complesso e accidentato, dove le cose possono aprirsi in miriadi di esiti differenti, la cui compressione in una sorta di ortopedia della psiche, rischia di far soffrire le persone di più anziché meno, perché introduce un “dover essere” su cui verranno registrati nuovi potenziali record e insuccessi, fino allo sfinimento.

E dopo Freud, inevitabilmente, il quadro andò a complicarsi ulteriormente, perché i dati che le analisi individuavano costringevano a rivederne lo statuto epistemologico, uscendo dal ristretto quadro positivista in un cui il viennese si muoveva, collocando il tema identitario – come per Carl Gustav Jung – nella crepe della tettonica dei popoli e l’alchimia degli archetipi, arrivando a postulare una libido come forma energetica “universale”, entro le cui pieghe, le piastrine delle storie individuali, consentono la coagulazione delle varie culture, espressioni spirituali e forme artistiche.

Tuttavia questo dibattito non ci interessa, se non per ribadire che dal l’avvento della psicanalisi, dal riconoscimento della sua efficacia, e della sua incontestabile capacità di “prendersi cura” delle persone, il tema identitario non possa più essere ridotto alla descrizione di un ente geometrico, le cui proprietà sono deducibili a priori. L’uomo è una creatura complessa, molto complessa, e non solo per il destino tragico di Ananke, espresso dalla costrizione di confrontarsi con la morte e gli déi, e neppure dai Novissimi della teologia cattolica. Lo è a causa della propria intricata e terribile storia. Una storia piena di trappole, inciampi, rallentamenti, scorciatoie, imbuti, fallaci digressioni, e costellazioni di esiti diversi. Storie che non arrivano a un epilogo scontato, che spesso si fermano a metà, se non addirittura tornano indietro (o che devono necessariamente tornare indietro pur di far qualche passo in avanti). Storie piene, soprattutto, di dolorosi adattamenti.

In questo gioca un ruolo chiave l’educazione.

Il trappista statunitense Thomas Merton intitolò nel 1955 un saggio “Nessun uomo è un’isola”. Ed è vero, ancorché per difetto. Perché, restando nella metafora geologica, ogni uomo è piuttosto un arcipelago. Un arcipelago particolare in verità, dove a emergere è effettivamente una sola isola, ma molte altre si agitano sotto la superficie dell’acqua. Alcune giacciono a profondità imperscrutabili, altre spuntano tra le onde non appena il mare si fa mosso; alcune ancora appartengono a un passato di cui non si ha memoria, mentre altre emergeranno, forse, in un futuro indecifrabile, altre ancora sono scogli invisibili, di dimensioni modeste, ma in grado di far naufragare – se sottovalutati – i più colossali transatlantici. Lo stabilisce in modo assai convincente la psicologia dei complessi – le isole sommerse – di Jung, o il conflitto tra pulsione e civiltà in Freud. A emergere dall’arcipelago è una sola isola perché questo è il lavoro della educazione – educere, “tirare fuori” – ma sotto la superficie ne vibrano  molte altre, pronte a balzare fuori alla prima bassa marea.

Perché ogni cosa che esiste, per il semplice fatto di esistere, anela alla luce e alla vita. Mutati mutandis, ogni aspetto della personalità, quando non addirittura altre personalità tout court, aspirano a essere riconosciute e legittimate. Per quando scabrose, o per quando giudicate inopportune dal racconto sociale, dalla convenienza o dalle aspettative diffuse. Questo è un punto cruciale, perciò vi indugeremo ancora. L’attività degli educatori (i genitori, gli insegnanti, quelli che i libri sulla educazione li scrivono, e coloro che sul bene di figli e studenti discettano, convincendosi con troppa indulgenza di fare ogni cosa per il bene delle inermi cavie dei propri esperimenti) viene rinforzata da un immaginario molto potente, la cui finalità manifesta è sempre quella di insegnare a “stare al mondo”.  Perché il mondo quello è, punto e a capo!

Finanche il lessico adottato esprime la prerogativa del tipo di movimento, ove ogni azione impartita nel nome della buona pedagogia, viene nutrita dall’uso della terza persona singolare (più raramente la terza plurale): una determinata cosa “si deve” fare in quel determinato modo. E la bontà (presunta) del risultato, giustifica ogni tipo di azione, non di rado la forzatura. In questa sovrastima del principio di realtà – da cui nemmeno Freud riuscirà a distanziarsi – nasce probabilmente da un coacervo di convinzioni, tra le quali un ruolo chiave è certamente, noi crediamo, la convinzione giudaico/ellenistica che la realtà sia “buona”, e che ogni adattamento, ogni assuefazione, ogni assestamento all’ambiente circostante, non potrà che essere intrinsecamente benedetto dal medesimo sistema che solca i filari della semina e raccoglie le messi quando i frutti sono maturi.

In nessun passaggio ci si domanda, né si porta rispetto a ciò che vi potrebbe essere latente, “chi sia” colui che quel processo dovrà subire. Anzi, spedire se possibile ogni aspetto disomogeneo nelle profondità oceaniche, è la migliore educazione possibile. Nel migliore dei casi ci si affiderà a una immagine stereotipata offerta dalla antropologia dominante, rigorosamente uguale per tutti; né mai si potrà imbattere in una auscultazione delle prerogative e dei fabbisogni individuali. E se appunto non accade mai di intravedere una qualsiasi azione educativa che tenga in alcun conto di elementi individuali anche molto semplici, è facile immaginare il triste destino di quelli che Carl Gustav Jung chiama “complessi”, la cui – mai parola fu tanto azzeccata – banale ammissibilità implicherebbe una dannata e sgradevole complicazione. Tralasciamo (in questa sede) le conseguenze tragiche che le omissioni comportano, sottolineando esclusivamente la vastissima  congerie di sintomi – che noi impropriamente chiamiamo “malattia mentale” – che contrassegnano un adattamento riuscito male, tanto quanto un altro riuscito chirurgicamente bene.

La vastissima letteratura psicoanalitica ha documentato irrefutabilmente che esattamente ciò che viene “rimosso” finisce per essere determinante in un altro momento, e quanto più un elemento viene allontanato dalla torre di controllo della ragione, diventa la scossa tellurica in grado di farla vacillare in un altro momento, generando spettri, contaminando pesantemente la vita emozionale del soggetto.

Se gli aspetti scartati di una personalità sono veri e propri nuclei identitari, se l’educazione riesce a far affiorare una sola isola, sommergendo tutte le altre, allora sulla linea d’orizzonte  dell’Oceano si profileranno nubi dense e nere, foriere delle peggiori tempeste.

Esiste tra gli scultori il paradigma della ablazione – saccheggiato guarda caso da certa pedagogia, nonché dalla teologia -, per cui l’artista non inventa la forma da imporre al blocco di marmo, ma la trova, preesistente, e si limita a farla affiorare, sgrezzandola da tutto ciò che è superfluo o dannoso. Ma se nella pietra vi fossero più forme – o istanze più complesse di quella -, lo stesso processo cui si indulge alla bontà dell’azione educativa, implicherebbe la necessità del raschiamento di tutte le altre. E se l’unica forma cui si decide di portare avanti la gestazione, fosse determinata – sarebbe anacronistico escluderlo – da una maieutica sociale dominante, e non solo dalla presunta forma trovata nel granito, l’aborto non ne conseguirebbe nel modo più violento possibile? L’azione dello scalpello non sarebbe simile al bisturi di un vivi sezionatore? Ebbene, questo scenario terribile è esattamente quello di cui siamo ostinatamente convinti; l’educazione, parenetica e assertiva che conosciamo in questa porzione di mondo, non si comporta come una amorevole ostetrica, ma come una cinica mammana che stabilisce, di uno zigote plurigemellare, quale sia il virgulto da far crescere e i tanti da recidere sin da principio.

Ora, che riteniamo aver chiarito a sufficienza questo concetto, torniamo al tema con cui eravamo partiti. Sul tavolo del tema di identità – chi sono io? – da qui in poi abbiamo abbastanza elementi da ritenere che si tratti di un tema assai più delicato e controverso di quanto uno qualsiasi degli immaginari di riferimento potrà mai tratteggiare (a questo riguardo rileviamo che, per la psicologia analitica junghiana la stessa domanda “chi sono io” potrebbe rivelarsi sovrastimata in partenza, e si dovrebbe sostituire, suggeriamo noi, con la più congrua “chi è Sé”). Il quadro così dovrebbe essersi sufficientemente arricchito – anche se preferiamo dire complicato -; l’Io, per come lo si intende è l’esito mai del tutto compiuto di un interminabile sequenza di segmenti, accelerazioni, diversificazioni, forzature, allentamenti e regressioni. E il tempo è il dedalo entro cui questo delicatissimo processo si snoda, perché nessuno può o potrà mai essere se stesso al netto della propria storia. Perciò possiamo ritenere seducente – ma neanche troppo – l’ipotesi di un dibattito su cosa sia l’Io, quale sia la sua vera identità, e che cosa debba fare un adulto per consentirgli di emergere e crescere armoniosamente. Potrebbe altresì attrarre il dibattito su cosa sia la vera natura, e quali obiettivi si debbano focalizzare perché il processo, nella sua autenticità, rispetti la sua più intima veridicità. Potrebbe, sì. Ma il rischio che l’esito di un tale dibattito sia un “dover essere” (o un “aver da essere”, come diceva Sofia Vanni Rovighi) il cui carattere assertivo e, ultimamente, impositivo, dovrebbero rendere restii dal voler trarre una conclusione. Perché la storia di ogni persona è talmente complicata – come modestamente abbiamo cercato di illustrare – al punto che un determinato individuo potrebbe arrivare al risultato “giusto” (pur ammettendo e niente affatto concedendo che esista l’esito ortodosso di un processo educativo) -, ma arrivarci per la ragione sbagliata, o per un motivo provvisorio, troppo presto oppure troppo tardi, o ancora arrivarvi come forma di ossequio e adeguamento alle aspettative collettive, come esito della cosiddetta pressione sociale. Nella sostanza per una forzatura e non per una libera scelta. E quindi un tale dibattito, se non fosse rispettoso dei molteplici fattori (e molti altri) che abbiamo provato a evidenziare, sarebbe soltanto una perdita di tempo nel migliore dei casi, oppure una pericolosa teoria generale dell’uomo nel peggiore. Basta guardarsi intorno, intercettare gli sguardi sui mezzi pubblici, sedersi nella sala d’aspetto di un medico di base; basterebbe ascoltare le persone che incontriamo per accorgersi, nella filigrana nascosta, di quanti adattamenti traumatici, quante acquiescenze subite, quante falsificazioni e quanto dolore vi possa essere sotto la divisa di un buon padre di famiglia, una madre protettiva, un figlio educato, una figlia annoiata, un insegnante pignolo, un commercialista ambizioso, o un anziano disilluso.

Poiché l’unica risposta sensata alla domanda su chi siamo, continuerà a essere “non lo so!”. Ogni virgola, o sospiro, aggiunto dall’esterno sarà inesorabilmente una prevaricazione.